C’è tutto il folk ancestrale delle Americhe, tutta la potenza di un paese così giovane ma che allo stesso tempo porta con sé un’eredità musicale che ha la statura del classico, del suono senza tempo: c’è tutto questo e molto di più nel nuovo disco dei Megafaun. Al terzo tentativo, la band composta dai fratelli Cook (Philip e Bradley) e da Joseph Westerlund fa centro pieno, consegnandoci nelle mani uno dei dischi più belli, intensi ed emozionanti di questo 2011. Ex compagni di un certo Justin Vernon aka Bon Iver, insieme a loro nei DeYarmond Edison fino al 2006 – anno in cui intraprese quella carriera solista che gli avrebbe portato parecchi riconoscimenti – i tre ragazzi originari del Wisconsin possiedono una profondità lirica impressionante, perfettamente focalizzata allo scopo di assemblare un album che è la sublimazione del genere definito Americana, ovvero quella commistione di alt country, folk, blues, psichedelia e pop tornata agli onori delle recenti cronache musicali grazie a diverse uscite di livello. Il lavoro che porta il loro nome si apre con un sentito omaggio all’epica che fu dei CSN&Y (Real Slow), prosegue con gli sperimentalismi vicini a certa floktronica con la successiva These Words, ma è quando i nostri decidono di giocare sullo stesso terreno dei nuovi assi del folk americano (Fleet Foxes, Wilco, lo stesso Bon Iver) che mostrano doti fuori dal comune: la lunga cavalcata col sorriso baciato dal sole di Get Right, così come le altrettanto luminose Second Friend e Resurrection (con una slide guitar che ti apre spazi immensi: dalla camera da letto vieni catapultato in dieci secondi nelle Grandi Pianure. Potere della musica) sono dei numeri country pop di valore assoluto. Ma è tutto l’album a convincere: anche quando i toni si fanno intensamente chiaroscurali – come nell’intenso gospel pianistico di Hope You Know, impreziosito dalla voce di Heather McEntire – la cifra stilistica del gruppo si mantiene su livelli eccelsi. Ma non è tutto: c’è ancora spazio per un blues isolazionista e desertico come Scorned, per un numero da big band free jazz come Isadora, per una ballata tutta spazzole e acustica gentile come You Are The Light. E potremmo continuare citandole tutte (per la cronaca sono 14). In sintesi, c’è in questi solchi una sopraffina capacità di unire comunicatività e senso per il crescendo epico, per la melodia mai banale e dalla costruzione complessa: dote questa, propria delle big bands dei Seventies. A costo di ripetersi, questo è un disco che spazza via metà delle uscite dell’ultimo semestre: a Febbraio saranno in Italia per tre date, il consiglio è di non lasciarseli scappare.