Nina Nastasia continua a riaggiornare il suo songwriting spostando volumi e cambiando di volta in volta l’impatto orchestrale; dopo l’episodio con Jim White, si lascia dietro la forza violenta e feroce di un vestito applicato alla sua scrittura e affronta quella che è probabilmente la raccolta di canzoni più crepuscolari da lei realizzate. Coadiuvata da Paul Bryan (Grant Lee Buffalo, Aimee Mann, Mavis Staples, Lucinda Williams) nell’adattamento orchestrale dei brani condotto insieme al compagno Kennan Gudjonsson, per il suo ultimo lavoro ha affidato la sezione ritmica al batterista Jay Bellerose (T-Bone Burnett, Joe Henry e già con la Nastasia in “The Blackened Air” e “On Leaving”) e una chitarra quasi invisibile nell’impasto generale, ad un maestro del tocco come Jeff Parker dei Tortoise. Outlaster sembra assorbire la scrittura folk in un viaggio possente dentro e fuori i confini della tradizione, a differenza della magniloquenza di Leave Your Sleep, l’ultimo capolavoro di Natalie Merchant, il tentativo non è certo quello di rendere percepibili i limiti territoriali e le loro radici, quanto quello di far confluire torch songs, gli Appalachi, Old time vaudevilles, la polvere di un antico tango balcanico, entro un contesto che ha certamente la concisione di un potente chamber pop, ma che utilizza l’orchestra anche per lavorare con-tro la narrazione, tessendo percorsi astratti, evocativi e visionari. E’ sufficiente l’attento ascolto di una traccia come la splendida What’s Out There, brano che affonda nel passato e che riemerge nella violenza dramaturgica e figurativa degli archi; prima un flusso, poi una tempesta che disassembla tutti gli elementi in una visione senza tempo. Una magia che non cede mai il passo e che si ripropone ad ogni episodio; Outlaster in questo senso anela in modo fortissimo alla visione, proprio per un’intima essenza sonora che non è quasi mai abbellimento, come troppo spesso capita rovinosamente ai progetti che cercano di colmare con il pieno degli arrangiamenti, i vuoti della scrittura. Se si prende A Kind of courage, ci si accorge come la linea vocale di Nina, quasi al limite della spaccatura, sia un riverbero di linee e percorsi allusi dal tessuto orchestrale; è sempre una questione di pieni e di vuoti, ma in un contesto dalla rara forza dialettica; davvero uno dei lavori migliori della songwriter di adozione Newyorchese.
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