domenica, Dicembre 22, 2024

Una Conversazione con Lucas Santtana

Attivo sui palchi brasiliani da oltre un decennio, il cantautore bahiano Lucas Santtana ha di recente proposto ritmi tradizionali e sperimentazioni elettroniche anche sulla scena internazionale. Il suo quarto lavoro, Sem Nostalgia (2009, Mais Um), è stato pubblicato per l’etichetta brasiliana di stanza a Londra Mais Um, aprendo all’artista la possibilità di superare i confini nazionali e rapportarsi ad un pubblico più vasto. Se l’album in questione aggiornava l’estetica cantautoriale di João Gilberto al nuovo millennio, processando il suono della chitarra acustica attraverso una miriade di effetti elettronici, il recente O Deus Que Devasta Mas Também Cura (2012, Mais Um) dischiude una tavolozza stilistica decisamente eterogenea. Accantonando per un momento le premesse concettuali, Santtana dà fondo alle proprie capacità espressive. Il risultato è un manufatto pop pressoché perfetto, in cui umori plumbei si sposano a tentazioni danzerecce all’interno di una formula electro-rock di sicuro impatto. In occasione dell’esibizione che il musicista di Salvador ha tenuto a Firenze lo scorso 11 novembre 2012 presso il Cinema Teatro Odeon, abbiamo avuto modo di analizzare i risvolti dell’opera con il suo autore. Ne è scaturita una piacevole conversazione, cominciata nella hall di un albergo e conclusasi molte ore dopo all’interno del cinema Odeon. Dove – per inciso – il nostro è riuscito a far scatenare il pubblico affluente nonostante la sala prevedesse solo posti a sedere, e nonostante il percussionista, invece di picchiare su fusti, sembrasse battere sui tasti di una macchina da scrivere.

Tutte le foto dell’articolo, ad eccezione di quella di copertina sono di Veronica Dreyer Machado

Ho avuto l’impressione che la tua ultima fatica, “O Deus Que Devasta Mas Também Cura”, partisse da premesse differenti rispetto a quelle che hanno dato origine ai tuoi precedenti album. Se prima sembravi in qualche modo lavorare a soggetto, sviluppando ogni raccolta di canzoni intorno ad un preciso tema musicale (dal dub di “3 Sessions in a Greenhouse” fino alla formula chitarra/voce di “Sem Nostalgia”), stavolta hai optato per una struttura libera da condizionamenti. Stiamo forse assistendo alla tua svolta pop?

Come hai giustamente osservato i miei album precedenti avevano sempre un tema portante a livello musicale e concettuale. È così che lavoro di solito. Per esempio, Sem Nostalgia rifletteva la volontà di rinnovare la formula tipicamente cantautoriale, basata su chitarra e voce. In Brasile questo schema ha dato origine a moltissimi brani di successo ma, fin dalle origini, è rimasto sostanzialmente lo stesso. L’ultimo disco è invece fatto di canzoni composte di getto, nell’arco di soli due mesi. Mi sono reso conto in seguito che tutti i testi erano stati scritti utilizzando la prima persona, e che dunque i brani assumevano un carattere molto personale, intimo. Ho capito che proprio questo rendeva il lavoro un album coerente, e non una semplice raccolta di tracce musicali. Da quel momento mi sono occupato degli arrangiamenti in maniera oculata, cercando di dare spazio a ciò che le composizioni richiedevano. Per quanto riguarda il pop posso essere d’accordo, ma credo che in fondo tutti i miei dischi siano inquadrabili nella categoria pop. La mia definizione di musica pop è molto ampia e non ha valenza negativa, non credo che il pop sia in contrasto con la sperimentazione o con soluzioni musicali sofisticate. Al contrario, ritengo che il pop sia un contenitore piuttosto capiente, e che dunque possa comprendere davvero di tutto, dalla musica sperimentale al jazz, fino alla classica. Dato che mio disco precedente – il primo, peraltro, ad essere distribuito anche qui in Europa – approcciava la formula chitarra/voce con una prospettiva concettuale posso dare l’impressione di essermi adagiato su qualcosa di più facile con ODQDMTC, ma personalmente ritengo che anche Sem Nostalgia possa essere definito un album pop.

Accennavi alla necessità di individuare arrangiamenti musicali coerenti con la natura dei brani. So che hai usato molti samples di musica classica proprio perchè ritieni che questo genere abbia la capacità di toccare le corde più profonde dell’animo umano…

Sono un grande appassionato di cinema, in Brasile ho anche composto alcune colonne sonore. L’utilizzo di partiture sinfoniche è una pratica che accomuna moltissime colonne sonore, proprio perchè la musica per orchestra dimostra una valenza drammatica che amplifica la carica emozionale delle immagini. Dal momento che in questo disco i testi avevano caratteristiche drammatiche piuttosto evidenti – si parla soprattutto di sentimenti – mi sembrava opportuno fornire ai brani arrangiamenti coerenti in tal senso. Così ho cominciato a campionare musica classica, anche se alcuni passaggi sono state registrati dal vivo. Mi sembrava un percorso sonoro in linea con la natura del disco.

Visto che citi la musica da cinema, mi piacerebbe sapere se esistono colonne sonore o autori di colonne sonore a cui ti senti particolarmente legato.

Adoro le colonne sonore dei film di David Lynch. Ho letto un’intervista in cui dichiarava che le musiche per i suoi film vengono sempre composte in anticipo, così che gli attori possano ascoltarle sulla scena, in tempo reale mentre stanno girando. Mi è sembrato un approccio artistico davvero interessante, ed ha una sua logica. I film di Lynch hanno questa atmosfera velatamente inquietante… penso che gli attori siano facilitati ad entrare nei loro personaggi se possono agganciarsi ad un tema musicale in linea con le premesse della pellicola. Mi piacciono molto anche le colonne sonore dei film di Cronenberg. E ovviamente i classici, come Morricone o gli score dei film di Fellini. Per citare qualcosa di più recente posso dirti che ho apprezzato molto il lavoro di Johnny Greenwood (Radiohead) per il cinema, cose come There Will be Blood o The Master.

Tornando alla questione degli arrangamenti… Quelli dell’ultimo disco si rifanno agli stili più disparati, si va dallo ska (Se Pà Ska S.P.) al dub elettronico (Jogos Madrugais), dal techno/funk (Mùsico) alla disco (O Paladino e seu Cavalo Altar), fino a lambire il reggaeton (Ela é Belém)… sembra quasi che tu abbia voluto passare in rassegna tutte le tradizioni ritmiche affrontate in passato…

In qualità di autore il mio è soprattutto un lavoro di ricerca. Sono continuamente alla ricerca delle mie sonorità specifiche. Ogni disco tiene conto di quanto fatto nei dischi precedenti. Così quando mi ispiro al samba, allo ska e via dicendo sto in realtà cercando il mio personale universo artistico, alimentato dalle tradizioni musicali con cui sono entrato in contatto. In questo album credo si siano concentrate le suggestioni musicali più malinconiche, dato che il tema portante ruota intorno a sentimenti come nostalgia e tristezza.

La curiosità che dimostri verso i generi meno nobili della tradizione brasiliana – come ad esempio il funk carioca – mi ha colpito molto. L’esperienza mi insegna che di solito i brasiliani della classe media detestano questo tipo di musica…

Quello che dici è vero ma bisogna considerare che, al contrario, la maggioranza del popolo brasiliano ama queste sonorità. Ci vuole sempre del tempo prima che la classe media e le élite culturali accettino i movimenti artistici che emergono spontaneamente dalle fasce più povere della popolazione. In Brasile è sempre andata così. Persino il samba, in origine, veniva trattato con sufficienza. Ci sono voluti moltissimi anni perchè arrivasse ad essere considerato un genere di musica rappresentativo a livello internazionale. Per quanto riguarda il funk carioca considera soltanto che esistono ancora circoscrizioni territoriali in cui i bailes funky sono proibiti. Questo genere lotta quotidianamente per la propria affermazione. La classe media continua a sperare che un giorno i testi si adegueranno a certi standard culturali, che prima o poi si affermerà un Caetano Veloso del funk carioca. Ma è una pretesa assurda. Il background culturale degli autori è completamente diverso e dipende in larga misura dal tipo di istruzione ricevuta. Ciò non vuol dire che tali testimonianze musicali debbano andare perdute. Conosci Luis Gonzaga? È il re del baião, la personalità più rappresentativa all’interno di questo genere musicale. L’equivalente brasiliano di James Brown, in un certo senso. La sua musica descrive perfettamente l’esistenza di chi abita le regioni interne del Brasile, quella vita che ruota intorno a festività religiose e balli popolari. È musica composta cinquant’anni fa, ma ti assicuro che se ti capitasse di assistere a queste celebrazioni oggi le descrizioni di Gonzaga risulterebbero ancora perfettamente calzanti. Allo stesso modo, se tra cinquant’anni dovessi trovarti ad ascoltare un brano funky avresti una descrizione pressochè perfetta – quasi un’analisi sociologica – della vita di un abitante della favela. Gli autori non utilizzano un linguaggio artefatto, si mantengono aderenti alla realtà delle cose. Descrivono quello che mangiano, come si vestono, come ballano, quello che gli piace fare. Dal mio punto di vista questa eredità musicale cela una ricchezza culturale che deve essere preservata. Quello che posso fare, nel mio piccolo, è diffonderla al di fuori dei suoi luoghi di appartenenenza, così da avviare un dialogo con altre tradizioni musicali.

A proposito di universi differenti che entrano in contatto… Vorrei chiedere la tua opinione riguardo ad una questione che mi sembra controversa. Quando la critica musicale – specie quella europea – deve descrivere la nuova generazione di autori brasiliani – penso a te ma anche ai +2 (Moreno Veloso, Domenico Lancellotti, Kassin) o ad Otto – il termine che ricorre più spesso è “post-tropicalista”. Mi sembra che questo richiamo alla Tropicàlia si debba soprattutto all’assenza di punti di riferimento. Noi europei siamo consapevoli di quanto è successo in Brasile negli anni ’60 e ’70, ma poi dagli anni ’80 è come se ci fosse un vuoto. Adesso che siamo tornati a parlare della scena brasiliana la stampa si trova ad utilizzare termini desueti, aggettivi correlati ad eventi molto lontani nel tempo. Aggettivi che finiscono per essere fuorvianti, e che comunque non sono adatti a descrivere quello che sta succedendo. Un tempo la Tropicàlia si poneva in maniera provocatoria nei confronti della tradizione musicale brasiliana, ma ormai è parte integrante di questa stessa tradizione, e dunque rappresenta a sua volta lo status quo. È forse giunto il momento di rinnegare anche il tropicalismo?

Non ritengo la mia musica, nè quella dei miei colleghi, una diretta discendente della tropicàlia e dunque non mi definirei mai post-tropicalista. Devo ammettere che il movimento in questione ha avuto su di me un certo ascendente: si tratta della musica che ascoltavo da ragazzo e certamente mi ha influenzato. Ma, come dicevo, è un tipo di musica che associo al passato, all’adolescenza. Nel corso della mia vita sono entrato in contatto con moltissimi altri universi musicali. Capisco le difficoltà della stampa europea dal momento che, come osservavi, vi mancano punti di riferimento aggiornati alla realtà attuale della scena brasiliana. La cosa mi può anche star bene a patto che – in un secondo momento – le persone entrino in contatto diretto con la mia musica, la ascoltino e sviluppino un’opinione autonoma al riguardo. Non credo che gli autori della mia generazione possano essere definiti post-tropicalisti, così come non mi sento rappresentato dalla sigla MPB (Musica Popular Brasileira), perchè anche quella è un residuato degli anni ’70. La percezione stessa del Tropicalismo si basa su di un assunto errato. Il Brasile è una ex-colonia, e come tale ha sviluppato una tradizione culturale necessariamente impura, ibrida. Questo fin dal periodo coloniale. Il merito del tropicalismo è semplicemente aver affermato esplicitamente una verità che era già sotto gli occhi di tutti. Se il movimento viene tirato in ballo così spesso è semplicemente perché la tendenza al sincretismo viene ritenuta tipica della tropicàlia. Ma la cultura brasiliana ha sempre presentato un carattere di questo tipo. Siamo un mix di tradizioni differenti. L’egemonia culturale degli Stati Uniti è molto avvertita, data la vicinanza territoriale. Allo stesso tempo subiamo gli influssi della storia e della filosofia europea. Quando frequentavo la facoltà di musica in Brasile, ad esempio, mi facevano studiare Beethoven. E poi, ovviamente, c’è l’Africa da considerare. Insomma, non teniamo neanche più in considerazione da dove provengano i singoli stimoli, perchè alla fine tutto si amalgama.

Dunque quale credi che sia la caratteristica specifica che accomuna i musicisti della tua generazione, se ne esiste una?

Avendo potuto usufruire di internet fin da ragazzi siamo entrati in contatto con tradizioni musicali differenti dalla nostra in misura certamente maggiore rispetto alle generazioni precedenti. All’epoca dei tropicalisti poteva succedere che, di tanto in tanto, arrivasse in Brasile un nuovo disco dei Beatles o di Jimi Hendrix. Per noi era possibile scoprire un nuovo gruppo ogni minuto. Siamo stati sottoposti ad una vera pioggia di informazioni. Di conseguenza siamo stati alimentati da stimoli musicali molto eterogenei. Credo che non sia nemmeno più corretto definire la nostra musica come musica brasiliana. A me sicuramente non piace che le mie composizioni vengano identificate in base alla nazionalità. Non perchè io non sia orgoglioso di essere brasiliano, ma semplicemente perchè non ritengo che ce ne sia effettivamente bisogno. La mia musica ha ormai perso i connotati specificamente nazionali, potrebbe essere prodotta in maniera pressochè identica in ogni parte del mondo. Se c’è un contributo che, come generazione, possiamo dare alla musica brasiliana esso va in direzione di una de-brasilinizzazione della musica stessa

Perchè credi che, al giorno d’oggi, la musica prodotta in Brasile stia ricevendo tanta esposizione mediatica quando fino a dieci anni fa era ancora relativamente oscura?

Perchè, come hai osservato, negli anni ’80 e ’90 la nostra regione era stata persa di vista dagli ascoltatori europei. Avevano comprensibilmente perso interesse. Del resto negli anni ’80 il rock brasiliano era un’imitazione di quello americano ed europeo, e dunque perchè avrebbe dovuto suscitare curiosità? Da qualche anno a questa parte, invece, il settore artistico è tornato a fiorire. Sicuramente l’economia in crescita ha contribuito allo sviluppo della situazione attuale. Il Brasile è tornato ad essere un luogo interessante, in cui si agitano tensioni e fermenti creativi. E poi penso che questa generazione di autori in effetti abbia talento, abbia prodotto buoni dischi. Le ragioni dell’interesse dimostrato da pubblico e critica sono ricondicibili ad un insieme di fattori.

So che sei molto interessato alla composizione basata su textures, e che non ami ragionare in termini di melodia e ritmo. Prima di chiudere potresti descrivermi il tuo iter compositivo?

A livello di ritmo, melodia e armonia tutto è stato già detto. Non parlo esclusivamente della situazione brasiliana, mi riferisco ad una circostanza che affligge gli autori di tutto il mondo. Una bella canzone sarà sempre una bella canzone, ma nel 99% dei casi sfrutta gli stessi accordi, la stessa melodia e lo stesso ritmo che sono già stati usati in centinaia di altre canzoni. Alla luce di ciò, l’apporto che sento di poter dare alla musica oggi riguarda il trattamento delle textures. Solitamente compongo al piano o alla chitarra, come fanno tutti. Ma ciò che mi interessa di più è l’abito con cui rivestirò la canzone una volta pronta. È un processo delicato, bisogna tener conto di come il suono di ciascuno strumento si amalgama con tutti gli altri. In relaziona a ciò, di solito immagino la musica a strati, come se le tracce fossero le pennellate in un quadro. Esistono sempre elementi che ad un primo sguardo non sono visibili, ma che si rivelano dopo un’osservazione a distanza ravvicinata. Attualmente i gruppi che ammiro di più sono proprio quelli che concepiscono i brani come architetture sonore. I Radiohead sono maestri in questo, così come anche James Blake.

Lucas Santana sul web

Il video di O Deus Que Devasta Mas Também Cura su Youtube

Le foto di Veronica Dreyer Machado

 

 

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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