lunedì, Dicembre 23, 2024

Okkervil River – I Am Very Far (JagJaguwar, 2011)

Dopo l’esperienza come produttore di True Love Cast Out All Evil, il disco del 2010 che ha segnato il ritorno dopo quattordici anni del conterraneo Roky Erickson, Will Sheff ha preso il timone della produzione dei suoi Okkervil River per la prima volta dal 1998. I Am Very Far, registrato in diverse sessioni nel Texas, nel Connecticut e a Brooklyn, dove ora Sheff vive, segna una ripartenza per il gruppo su più fronti. Intanto sembra essersi dissolta quella propensione naturale al concept album che generò l’ottimo Black Sheep Boy del 2005, (con relativo EP di appendice) e in tempi più recenti i due dischi complementari The Stage Names e The Stand Ins, con cui li avevamo lasciati nel 2008. In quei tre dischi Sheff attraversava una delle sue ossessioni più marcate, quella per la vita dei grandi artisti (in Black Sheep Boy il folk singer Tim Hardin) e le ripercussioni di fama e celebrità sul loro lavoro e sulla loro personalità. I Am Very Far si distacca dalla letterarietà di quel piglio malinconico e ammirato per dare libero sfogo a una dimensione più personale, a undici brani più “autonomi” e forse meno ambiziosi, in cui la penna felice di Sheff è riuscita a racchiudere brandelli del suo inconscio. Una sana ambizione domina invece la musica: le radici folk, Americana del progetto Okkervil River si sono espanse nell’ultimo decennio fino ad abbracciare vari stili, da un pop orchestrale di calcolata raffinatezza a un minimalismo rock che forse ha segnato i loro episodi migliori. Questo nuovo disco attinge a quel fortunato marasma con l’aggiunta di qualche punta di oscurità, oltre che a un’alta dose di sperimentazione nel lavoro in studio. All’album hanno lavorato otto musicisti fissi, cui si sono aggiunte numerosissime collaborazioni ad hoc. Con l’obiettivo di creare un sound denso ed esuberante, Sheff ha voluto infatti moltiplicare molte delle strumentazioni: due piani, le percussioni di Stephen Belans accanto a quelle del membro fisso Cully Symington, le quarantacinque chitarre in apertura di We Need a Myth e una nutrita squadra di archi e fiati. Alla sovrapposizione di registrazioni di interi brani da diverse session si è aggiunto un peculiare uso delle voci (ci sono brani cantati in movimento nella stanza di registrazione), lo schianto di armadietti a terra e l’impiego di nastri mandati in frenetico fast-forward (Piratess), solo per citare alcuni esperimenti. Fin dal primo brano, la nottambula The Valley, con quel suo attacco sferzante, la sensazione è quella di assistere alla liberazione da un senso di costrizione e d’angoscia. L’atmosfera cupa del testo si ricongiunge con l’immaginario tipico di Sheff (“We were fallen on the border with the rock and roll singed”), mentre la baldanza di percussioni e tastiere costruisce una tenebrosa marcia. Anche l’elegante Piratess, costruita su un connubio funky di basso e percussioni, rimanda ad atmosfere notturne, qui decisamente più voluttuose. L’esplosione di musicisti “in soprannumero” di cui si parlava anima la sovraccarica Rider, assieme a White Shadow Waltz il pezzo più esuberante del disco. La prima lascia spazio a una vitalità vagamente springsteeniana non troppo incisiva, la seconda si irradia come un pezzo degli Arcade Fire recuperando nel crescendo una convincente vena melodrammatica. Al centro del disco We Need a Myth, in cui Sheff lamenta la mancanza di archetipiche narrazioni a nutrimento di noi tutti (“From the blessed lips/Of any prophet or goddess/I need a myth/Brought back to life by a kiss”). Il notevole lavoro della band costruisce un climax orchestrale davvero magniloquente, riportato al grado zero dalla morbidezza dance hall di Hanging from The Hit, l’unica a detta di Sheff ad essere narrata da un personaggio d’invenzione, sulla falsa riga dei dischi precedenti. Show Yourself, definita “a weird mix of a live document and a total studio creation” recupera un andamento poppish poco incisivo, che si riprende nelle distorsioni finali delle chitarre. Your Past Life As a Blast prosegue il mood alleggerito, creando un setting quasi esotico, complici le conga. La conclusione del disco è affidata ai sei minuti di The Rise, partorita nel New Hampshire al piano dei nonni, in cui la voce di Sheff, sullo sfondo di un’orchestrazione a base di archi e oboe, interloquisce con se stessa raccontando la paura di scomparire (“I don’t want to be there/when it’s time to go/down, or I don’t want to go/down there alone”). Ed è in modo tenue e rarefatto che l’album va scomparendo, lasciandosi alle spalle forse pochi picchi emotivi, ma nel complesso una ricca compagine di spunti per una narrazione più personale e intimistica che speriamo di ritrovare sviluppata in futuro.

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Redazione IE
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