Due anni fa con Feeler of Pure Joy Ryan Driver faceva il suo formale debutto solista, guadagnando consensi dalla stampa (Uncut lo definì un “formidabile singer-songwriter”) e mostrando grandi abilità di alchimista, grazie all’unione di una matrice folk acustica dai mille volti con un’autentica anima jazz, che ha come sua principale valvola di sfogo il suo side-project The Ryan Driver Quartet. Ma sono davvero numerosi i progetti e le collaborazioni che lo vedono capillarmente coinvolto nella scena musicale di Toronto e preziosa presenza per l’etichetta Constellation, tra cui The Slit (sempre per Fire), Jennifer Castle, Deep Dark United, The Reveries, The Fake New Age Music Band, St. Dirt Elementary School, The Guayaveras, Sandro Perri ed Eric Chenaux, per citarne alcuni. Sue armi essenziali sono voce (spesso e volentieri vestita di falsetto) e chitarra, ma fin dal primo album e nell’assetto dal vivo Ryan fa uso anche di strumenti meno convenzionali, tra cui flauto a naso e palloncini gonfiabili, che uniti all’attitudine all’improvvisazione tinteggiano di stramberia e imprevedibilità il suo songwriting, riflettendo un animo complesso e sfuggente.
Il cantautorato di Driver sembra spesso calato in una dimensione sovratemporale, immaginaria, dove i luoghi sono sempre da raggiungere o abbandonare, i sentimenti e i pensieri abbozzati alla stregua di enigmi. Non a caso molti frammenti dei testi sembrano attingere a doppi sensi e a giochi di parole (“I’m not over here, and I’m not over her”). Con Who’s Breathing? Driver cattura magistralmente queste impressioni, condensate nella prima parte del disco, creatura bifronte tenuta insieme dal suono pulito e magniloquente di una band ben nutrita: Andrew Downing e Rob Clutton al basso, Stew Crookes al pedal steel, Justin Haynes per organo e chitarra, alla batteria Jean Martin e Nick Fraser, Marco Cera al corno inglese e alla chitarra elettrica Martin Arnold, le cui distorsioni frastagliano le intense tirate pianistiche di Driver, nel disco alle prese anche con synth, nylon string e flauto. Il disco si apre con il country luminescente di stampo classico di Dark End Street, epitome di quel vagabondaggio di cui si parlava (“I’m always going where there’s no place to go”), proseguito dal senso di smarrimento e di perpetua esitazione di Am I Still Too Late?, ballad distensiva, imperniata su un’interpretazione vagamente soul che prende invece pieno spazio nell’energica Everything Must Spin.
L’organo e la chitarra di Tell Me True lasciano l’ascoltatore assorto, rapito dalla voce di Driver e dai suoi occasionali falsetti; una stasi riflessiva a cuore aperto che ricorda certe intensità di Will Oldham. Con It’s Tulip Season prende avvio l’ideale seconda metà del disco, in cui tutto è filtrato da una matrice jazz contaminata di rara bellezza, che porta il piano in prima linea. La splendida e oscura Whether They Like It or Not è uno dei momenti più intensi del disco, con le vertigini elettriche di Arnold a spiazzare il pianoforte. Il pezzo strumentale When Now Turns To Never è un onirico gioco d’incastri perfetti, inacidito dal synth quasi a ricercare un’ironica complicità con l’ascoltatore. Quando il disco chiude in bellezza con la stellata On A Beautiful Night Like Tomorrow, a nervi distesi, viene quasi spontaneo ripartire da capo, proprio come in un viaggio senza meta.