S. Carey paga il prezzo di una prossimità non solo affettiva al mondo di Bon Iver e allora non gli si perdona di essersi sbarazzato del songwriting del maestro in un tentativo di carpirne l’essenza per altre strade, e fa un po’ male leggere ancora di canzoni che mancano, di vanità ambientali e del solito dissidio tra un racconto orizzontale e l’inabissamento intimo dell’astrazione; come se l’identità fosse un territorio dai confini sicuri. All We Grow spesso si perde, è vero, preferisce elaborare una sofferta riflessione sulla timbrica costringendo il brano a vivere in un confine precario, tra risonanza e ritmo, un’ambito quest’ultimo che S. Carey conosce molto bene in modo non banale e che affida al bozzetto brevissimo, alla possessione tribale, alla visione invece che alla descrizione. Broken, la traccia conclusiva dell’album contiene lo spirito di All We Grow proprio nel momento di affidare la forza drammatica del brano alla sua evanescenza, al drumming che raddoppia il piano e che insieme a questo scompare in un drone minaccioso e scuro. C’è poco spazio per la memoria, le uniche stazioni riconoscibili funzionano per impatto e schianto, la notevole In the dirt si sviluppa tra una texture di piano e un handclapping che celebra la morte, a fianco, Rothko Fields, un esempio di espressionismo caldo dalla consistenza astratta e pittorica, quasi che la forma paesaggistica della musica di Bon Iver venisse ridotta ad uno scheletro di linee e tracciati; in questo senso c’è un’incertezza di fondo tra l’aderenza al modello e la ricerca di qualcos’altro attraverso gli elementi residuali di quella musica, ma non può non colpire l’anima intimamente Jazzistica di In The Stream, un brano straordinario che si avvicina al suono in-audito del Mark Hollis solista, spirito libero che sembra attraversare questa raccolta di canzoni sbilanciate.