C’è qualcosa di sinceramente inesplicabile nell’ultimo disco dei Dodos, che per l’occasione hanno richiamato in regia il produttore John Askew, già artefice della decisiva svolta al suono della band in Visiter. Meric Long e Logan Kroeber sono due musicisti eccezionali, ormai in maniera conclamata e ribadita, sino allo sbandieramento che Kroeber ha fatto pubblicamente dei propri studi sulle percussioni africane, dopo che il suo socio aveva, sin dal primo disco, in pratica riscritto l’utilizzo del fingerpicking. Può una somma di fattori di così elevata caratura produrre un risultato che di strabiliante ha davvero poco, sino a poter quasi essere considerato “inutile”? Certamente sì. Verrebbero adesso a galla numerosi ed irrisolti conflitti fra tecnica e stile, gusto e misura, virtuosismo e musica, che alla fin fine si risolverebbero in una questione di gusto (sì, anche dell’ascoltatore). Liberissimi tutti. Ma il quarto lavoro della band californiana, che chi scrive ammira sinceramente, non può essere salvato del tutto con argomentazioni del genere. Quello che manca al disco è proprio la misura. La voglia di stupire lo permea dal primo all’ultimo secondo di ascolto, senza alcuna necessità, perché a Meric Long nessuno ha mai chiesto, tanto per fare un esempio, di eseguire gli arpeggi in trentaduesimi sempre e comunque. Peccato, perché No Color parte sfornando un uno-due scoppiettante, con la batteria marziale e apertissima (autentico marchio di fabbrica dei nostri) e le parabole chitarristiche nel ritornello di Black Night, che si aggancia a quello che è senza dubbio il pezzo più riuscito (Going Under): un dolcissimo ibrido tra una barcarola e una giga, con un gran gioco di continua inversione di accenti, che si apre in un ritornello (in 4) dai perfetti contrappunti vocali sino all’esplosione elettrica finale. Sei minuti di pura goduria, nei quali non a caso nel testo è utilizzata la metafora della nave che affonda per evocare, insieme allo squilibrio ritmico, lo squilibrio esistenziale. Gli ingredienti sono già tutti qui, al massimo livello. Ora, una flessione nel resto dell’album, dopo un antipasto di tali proporzioni, era anche naturale ma, drammaticamente, nessuno degli altri pezzi brilla dello splendore dei primi due: se ancora Good cavalca spigliata, Sleep (con i suoi archi indianeggianti e la melodia in odore di Animal Collective acustici, come peraltro altri brani) è semplicemente leziosa, al pari della successiva Don Try And Hide It, senza che nemmeno la presenza di Neko Case, ospite alla voce, costituisca un autentico valore aggiunto. In pratica, tutto il lato B non riesce a stuzzicare più il palato, sino addirittura a stuccare, in una dialettica comunque squilibrata fra tecnica ed autentica ispirazione melodica, che il gruppo avrebbe pure l’ambizione di inseguire, se non si perdesse, ad esempio, negli imperdonabili labirinti chitarristici, per di più sbattuti in primissimo piano, di Companions. Sia chiaro, la bravura non si discute né è da buttare l’idea base del gruppo, non troppo lontana, come approccio, dai nostrani Marta Sui Tubi, ma rimane non riuscito il tentativo di abbinare al new folk melodico (che ontologicamente ha bisogno di immediatezza e semplicità in tutte le sue componenti) esibizionismi che non fanno altro che affossare la canzone come prototipo di forma espressiva, che di questo genere è l’autentica anima.