Se l’esito di un paio di notti spurie trascorse con l’intento di mistificare il mistificabile era stato (l’inascoltabile) Casotto, in cui un low-fi grigio ed apparentemente senza speranze, di sicuro più adatto ad un pronto-ascolta che non ad una release ufficiale, rischiava di mettere in seria discussione la validità degli strumenti didattici delle accademie musicali, con Il tempo dei lupi, il m° Wassilij Kropotkin (Francesco D’Elia) rende il giusto valore ai suoi sforzi riponderando ciò che va riponderato nella sua integrità. Ben lontano, quindi, da quello sbozzo ludico, in quest’ultimo disco c’è l’anima che mette tutti d’accordo. Oddio…tutti…che parolone! Certo è che un orecchio poco aduso alla sperimentazione ed ai suoni fai da te farebbe davvero fatica a prestarvi attenzione ma siamo orgogliosi di gustare sempre l’altra metà della torta per cui addentiamo subito questo nuovo selfmade. Ciò che Interpol ed Editors ci avevano impropriamente tolto, ci viene restituito così sin dalle spirali psichedeliche dell’iniziale mta (omaggio forse alla subway newyorkese) in cui si respira quella componente più primitiva, più obliqua e dunque meno edonista, parecchio viva nei loro antesignani The Stranglers o negli inarrivabili Oneida. E c’è di base molto blues condito da bolge di anarchia come nel collega (ed amico) Katarro (qui ovviamente nella sua accezione meno modaiola e più introspettiva), anche nella successiva post, in cui si riprende il discorso già in nuce in Casotto, ampliato con l’accuratezza dei suoni, ora migliori dei precedenti perché più informati, perché con più senso, complice di fatto una laurea acquisita ed un viaggio negli States. Sintomatico, a tal proposito, notare che il ventilatore diventi elettrico per l’occasione. Non serve quindi moltissimo scendere nel particolare gnoseologico dei testi (visionari ed inquietanti anche stavolta) così come non credo serva a nulla pensare che l’economia del disco avrebbe avuto bisogno di una sfrondatura maggiore. Scendevo nel mare, con il suo imbuto di un’improbabile ensemble solista (piano, flauto, violino) dà il giusto tributo a questa logica di cose, voce dietro e riffs angoscianti come un incubo a cui non vorresti mai associare alcuna immagine reale. Si parte dunque dalla vision newyorkese per arrivare ad un free circolare e sinistro che almeno nelle prerogative essenziali sa molto di avanguardia (l’alieno, arrivano il lupi) e che trascende l’idioma (ora non più solo in italiano) per fare da cornice ai suoni/rumori. Tutto con la benedizione della postpunk contorta di Bauhaus e Joy Division (athrocity exhibition) ed il benvenuto dei minimalismi ambient di talune cosacce noise in un paesaggio post-moderno di affascinante caratura. Adesso che sono davvero pronto a tutto mi godo, di gran lena, le turbe del compagno Wassilij.