I Wilco non hanno mai avuto un ottimo rapporto con le case discografiche, sebbene le loro vicissitudini contrattuali abbiano, in un certo qual modo, mostrato al mondo intero il modus operandi, talvolta ambiguo, delle major. D’altronde, l’album che ha consacrato la band di Chicago, Yankee Hotel Foxtrot, ha dovuto subire il rifiuto dell’etichetta che li produceva, la Reprise Records, prima di essere pubblicato su Nonesuch Records, entrambe sussidiarie di Warner Music Group. Risultato: il disco vende 500.000 copie negli soli Stati Uniti e diventa uno degli album alternativi più apprezzati del decennio. Da quel momento in poi, i Wilco hanno avuto come unico proposito, quello di fare “buona musica”, rimanendo fedeli a se stessi, a detta di alcuni anche troppo, e per mantenere fede a questa intenzione, pubblicano la loro ultima fatica attraverso la dBpm (Decibels Per Minute, n.d.r.), l’etichetta indipendente da loro ideata. The Whole Love è infatti una bella sorpresa, la festa di battesimo di una rinnovata libertà musicale ed etica. Si tratta sempre, fortunatamente, di rock alternativo con venature folk e qualche intento sperimentale, dove a farla da padrone sono Rocksichord, organi Hammond e tastiere dai suoni sinistri (sfruttati senza dover necessariamente scimmiottare la scena garage). La novità sta nell’attitudine dei pezzi con i quali si ripresentano al loro pubblico: un approccio anche elettronico, più curato e studiato attraversa l’intero lavoro sin dalle prime note. I rumori di Art Of Almost, la traccia di apertura, si schiantano sulla superficie limpida di un classico pezzo à la Wilco, dove maturità stilistica e immediatezza sonora riescono a convivere insieme senza generare mostri da classifica. I Might, il primo singolo, insieme a Standing O sono più vicine al garage rock revival degli Spoon che all’alt-country degli inizi, del quale resta comunque una piacevole traccia (Whole Love). Dawned On Me sembra invece portarci indietro, agli anni ’90, verso territori più avvezzi al post-grunge, sebbene non si tratti certamente dello stesso tipo di forma canzone, quanto di un tributo a quel tipo di chitarre distorte. I momenti più rilassati sono – senza alcun dubbio – quelli più coinvolgenti, dalle suggestioni “americana” di Black Moon, in cui gli archi disegnano linee flessuose e nostalgiche, alle radici country che emergono – in tutta la loro tradizionale credibilità – nell’altrettanto malinconica ballata Open Mind. One Sunday Morning, invece, è immune da quella sovrapposizione graduale di strumenti un po’ bluegrass che cattura l’ascoltatore nelle tracce precedenti; solo la voce sussurrata di Jeff Tweedy, frontman storico della band sopravvissuto ai vari abbandoni, riesce a prevaricare sull’orchestrazione, quasi appiattendola per tutti i dodici minuti della traccia. C’è tanto da dire su questo disco, poiché c’è tanto da ascoltare: ogni traccia racchiude un mondo fatto di suoni inaspettati come solo una band multi-strumentista sa prospettare, e non è partigianeria musicale se vi diciamo che questo sarà uno dei migliori album del 2011, perché la scelta di “mettersi in proprio”, come i Wilco hanno fatto, è infeconda di ingordigia. The Whole Love è solo il testamento di chi ha saputo far valere il controllo delle proprie facoltà musicali.