“Gibby era ubriaco e completamente ingestibile ventiquattro ore al giorno, che fosse sveglio o addormentato. Considerate anche le enormi quantità di acido che assumeva, temevo costantemente per la mia vita, la sua vita e la vita di chiunque incrociassimo per strada abbastanza sfortunato da degnarlo di uno sguardo… Comunicare con lui non era molto diverso dall’essere intrappolato in una gabbia molto piccola con un gorilla.
«Cosa???!!! Come CAZZO mi hai chiamato? Tu, fottuto omosessuale!!! Maledetto succhiacazzi!!! Ti ho sentito!!! Ho sentito cosa hai detto!!! Ti taglio quella cazzo di gola!!! Parla, rottoinculo! PARLA ADESSO o muori nei prossimi 10 secondi!!!!»
«Non ho detto nulla Gibby. Te lo giuro. O meglio, ho detto qualcosa forse cinque o dieci minuti fa, ma non sembravi aver sentito, così io_»
«Cosa???!!! Non chiamarmi mai più in quel modo o mi scopo il tuo teschio con il mio cazzetto texano!!! OK??? OK!!!??? Cazzo, mi capisci adesso, piccolo stronzetto newyorkese?!!! O preferisci morire qui e ora con la tua faccia di cazzo inchiodata al mio grembo??!!»”
Con queste parole Mark Kramer – uno degli innumerevoli bassisti avvicendatisi nei Butthole Surfers prima dell’arrivo di Jeff Pinkus – descriveva le sue esperienze in compagnia del cantante Gibby Haynes. Un resoconto illuminante circa lo stile di vita tenuto da uno dei complessi più dissacranti e grotteschi del panorama indie-rock americano anni ’80. Se ciò non bastasse ecco la lapidaria testimonianza del chitarrista Paul Leary – colui che insieme a Haynes fu del gruppo un membro fondatore – a rendere chiaro quali fossero intenti e aspettative dei Surfers, dal profondo del baratro di marciume e follia che caratterizzò i primi anni della loro esistenza: “Non riesco a credere che siamo sopravvissuti a tutto questo… Non è mai stato qualcosa del genere «diventeremo famosi e faremo un sacco di soldi». Era più tipo «ci divertiremo un mondo prima che giunga la fine»… Non ho mai creduto possibile che esistesse una via d’uscita”.
Eppure, contrariamente ad ogni pronostico, una via d’uscita i nostri surfisti l’hanno trovata davvero. Sebbene non è dato sapere quanto ricchi siano riusciti a diventare, è lecito affermare che la stipulazione di un contratto discografico con la Capitol nel 1992 abbia loro procurato una piccola fetta di successo. Miracoli del boom post-Nevermind: nella speranza di scovare l’ennesima gallina dalle uova d’oro, le multinazionali si sono arrischiate per qualche anno a scritturare qualunque realtà proveniente dall’underground. Persino una manica di drogati instabili dediti ad una musica tribale, acida e per certi versi inascoltabile come quella dei Butthole Surfers.
Non c’è dubbio che l’ingresso nell’ Olimpo dei “grandi” abbia giovato ai nostri, almeno per quel che concerne la qualità delle loro esistenze. Haynes, Leary, Pinkus e i batteristi King Coffey e Teresa Taylor (la formazione “classica” dei Surfers) a quest’ ora potrebbero essere morti e invece si stanno esibendo di fronte a noi. Sembrano persino in buona salute. Certo, sul piano artistico il discorso si fa molto più complesso. Dopo sette anni di silenzio discografico, la scelta degli autori di eseguire in tour solo brani appartenenti al loro periodo indipendente la dice lunga sull’opinione che gli stessi nutrono nei confronti della propria produzione major. E poi, diciamocela tutta: questi Butthole Surfers riappacificati con sé stessi, in concerto proprio non convincono.
Cosa c’è che non quadra? Le canzoni, va da sé, sono quelle giuste. Deliri rumoristi si alternano ad improbabili inni da stadio, le due batterie caricano la musica di una propulsione tribale, i volumi sono da acufene. Pinkus è granitico, Leary ricama su ogni brano assolo acidissimi, Haynes gigioneggia come di suo solito: alterna chitarra e sax, canta attraverso un megafono e modifica elettronicamente la propria voce con effetti a dir poco estranianti. Sì, non c’è dubbio, sono proprio i Butthole Surfers. Ma dov’ è quel cabaret tragicomico, lisergico e decadente di cui avevo sentito parlare con entusiasmo? Dove sono le luci stroboscopiche, i fuochi d’artificio, la proiezione di disgustosi filmati anatomici? Dov’ è la ballerina nuda che si esibiva in disturbanti performance sessuali con Gibby? Beh, evidentemente tutto questo fa ormai parte del passato. I Surfers che stasera suonano per noi sono dei simpatici individui di mezza età. Un po’ strambi, se proprio vogliamo, ma del tutto innocui. Quel senso di pericolo che caratterizzava i loro primi live show – particolare su cui le biografie ritornano con insistenza – li ha definitivamente abbandonati. Dispiace ammetterlo ma, complice anche la terribile acustica dell’ Estragon, sembra proprio di ascoltare un gruppo di metallari attempati. Persino il gran finale ha un che di loffio: nessuna catarsi distruttiva, bensì un Gibby che, pacatamente e metodicamente, smonta i fusti della batteria sui feedback assordanti degli amplificatori.
Tutto questo mi porta a fare delle considerazioni. Fino a che punto un artista che ha basato la sua estetica sull’eccesso può permettersi un’ evoluzione (o involuzione) stilistica? E noi, il pubblico, abbiamo il diritto di esigere da lui una totale dedizione alla propria arte, anche se questo significa immolarsi alla causa? Chi lo sa, sono domande che aprono discussioni difficili da portare a termine. A livello umano sono grato che i Surfers non abbiano persistito in uno stile di vita che li avrebbe sicuramente portati alla morte. D’altronde è palese che proprio in quello stile di vita autodistruttivo risiedesse la loro fonte di ispirazione, oramai definitivamente esaurita. Volendo fare un’osservazione cinica e puramente utilitaristica si potrebbe affermare che nella sostanza, per noi spettatori, le cose non cambino poi tanto… morte per morte… ma vallo a dire a loro. Probabilmente Paul Leary risponderebbe come ha sempre fatto con tutti coloro che lo accusavano di essersi venduto: “mangia la merda e muori”.
(citazioni tratte da Our Band Could Be Your Life – Scenes from the American Indie Underground 1981-1991, Michael Azerrad, 2001)