Alessandro Fiori non ha bisogno di presentazioni. I dieci anni di attività con i Mariposa sono diventati sinonimo di ottima musica, così come le varie collaborazioni (con Paolo Benvegnù, Marco Parente e Andrea Chimenti) che hanno impreziosito la sua carriera. Oggi, aiutato da Alessandro “Asso” Stefana, dallo stesso Marco Parente e dal compagno di band Enrico Gabrielli tra gli altri, firma il primo disco a suo nome, “Attento a me stesso”. Gli undici brani si distaccano abbastanza dal discorso che Fiori sta portando avanti col suo progetto “principale”, e per certi versi ne rappresentano il lato oscuro, sia per il tema trattato, sia per alcune scelte a livello di melodie ed arrangiamenti. L’album descrive infatti la consapevolezza che la morte è in essere senza sorpresa, qualcosa che è già presente con noi in ogni istante, riflettendo anche sulla relazione tra abbandono e resistenza. Un argomento che potrebbe evocare spettri musicali gotici e asfissianti: per fortuna non è così (con tutto il rispetto per dark-wave e affini, sia chiaro). Alessandro si appella infatti alla miglior tradizione cantautorale italiana, in particolare quella di Jannacci, Ciampi e Graziani, aggiungendoci un tocco di pop intelligente e gustoso, oltre a un pizzico di ironia, amara ma pur sempre ironia. Il risultato consiste in undici brani di ottima fattura, che vanno a scandagliare sia il sogno che il quotidiano alla ricerca di risposte, tra momenti più intimi ed altri in cui ci si apre al mondo, con melodie più ariose, figlie degli anni ’60 più eleganti. Proprio questi ultimi sono i brani che colpiscono maggiormente al primo ascolto, mentre per gli altri è necessario un maggior sforzo, che viene però ripagato dalla scoperta di testi più che mai ricchi di significati e di suoni equilibrati ma per nulla scontati. A spiccare sono “2 Cowboy per un parcheggio”, con i suoi riferimenti al momento peggiore della vita di ogni musicista (cioè il borderò), “Senza le dita”, che distilla classe e disperazione alcolica tra Bindi ed Endrigo, e “Labbra fredde”, il momento più gelido del disco non solo per il titolo, oltre al brano finale, “Trenino a cherosene”, due minuti semplici semplici, una specie di filastrocca sulle pene amorose e non solo patite da un pendolare.