Francamente dimesso dopo l’avvilente rally gastronomico di fine anno e sfatto sul mio porporino sofà svedese, non so davvero quanti pensieri audaci da ordinare in fila abbia su Mountain Whales degli Amycanbe; so, però, di aver gradito parecchio. Altroché scontato come convincimento, nella misura in cui si dubiti (come io dubitavo) che, tra gli ormai stretti, strettissimi interstizi di note così gravemente “mature”, ci fosse ancora spazio utile per un album talmente ricco e colto. E poiché la cultura musicale non sempre alleggerisce il borsino della creatività, piuttosto rischia di aumentarne a dismisura le pretese, il plauso è da considerarsi doppio, posto che, in questi anni, la band ravennate si è ritagliata una notevole fetta di prestigio anche e, grazie al cielo, oltre i confini nazionali. L’incredibile incanto della voce di Francesca Amati, così evocativa e soffice, sia che sostenga l’architrave acustica del duo Comaneci, sia con la spinta elettrica degli Amycanbe, ne eleva di fatto il modello, stabilendo per essa un target fuori dall’ordinario. Ed infatti, sin da subito rapiti dall’estatica My Love, veniamo sparati sulla guglia di un pinnacolo ove stanzia l’amorevole fissa per tutto l’officio a senso e sentenza bristoliana, con quella sua tipica attitudine all’incarnazione del topos sibillino, etereo e rappresentativo. Nessun convenzionalismo, però, nella rilettura di certe logiche, anzi, quasi un illiberale dimostrazione di personalità che, dalla successiva Truth be told, con quel suo vago genoma folktronico, macina chilometri su chilometri sino al trepidare infausto dei Blonde Redhead di Penny Sparkle (What If, Your Universe), e giunge addirittura a meritare un posto nel maniero sadcore di Arab Strap e Low (si ascoltino gli struggenti crescendo di Different e Please). Non mancano inoltre momenti più deliziosi, calcati a mano su tele gialle, verdi e blu come se Emily Jane White e Miss Kenichi si fingessero Boudin e Monet (Ask me, Wake me Up) o tinte rosse e nere a metà tra il malinconico pop di certi Villeneuve (Andy’s shoes) e quello più viscerale che potrebbero i redivivi Sparklehorse con una Nina Persson standing alone (One eye two eyes a mouth).
Disco prezioso, insomma, che riesce a sublimare, senza particolari patemi, quell’immaterialità dolente di forme fluttuanti attraverso il mare dell’anima, mentre queste affiorano, fanno capolino, emergono in superficie, per poi sparire nuovamente nel profondo blu.