venerdì, Novembre 15, 2024

Andate tutti affanculo, una conversazione con Appino degli Zen Circus

Mi piace molto l’idea che stiate lavorando al disco senza abbandonare la dimensione dei concerti. Pensate sia importante continuare a suonare dal vivo, per testare e migliorare le canzoni assieme al pubblico?

In realtà non le facciamo se non un paio, a parte stasera che ne faccio qualcuna in più, poi faremo tutto a modino a settembre. In realtà son due anni che facciamo solo questo e per farlo in Italia, si sa, bisogna suonare. Noi abbiamo il culo di suonare tanto, quindi non esiste fermarsi. Seconda cosa, io sono operaio, ho sempre fatto l’operaio, anche gli altri; certo, adesso soldi ne arrivano ma non si può certo andare avanti per un anno in tre, quindi suonare suonare suonare. E poi è una droga, non si riesce a stare a casa. Andiamo avanti col tour fino al 12 settembre e il turn-over è ai primi di ottobre, quindi staremo fermi solo un mese e mezzo tra un tour e l’altro.

Pochi mesi fa avete vissuto un’esperienza australiana assieme a Davide Toffolo. Come è nata l’idea di questa tournee e come è andata?

L’idea è che ci han chiamato; noi non avremmo mai osato chiedere. E’ nata dal fatto di andarci con Davide, perché Brian Ritchie ha visto il suo lavoro per il video di “Punk Lullaby” e se ne era innamorato. Poi gli abbiamo regalato il libro di Davide su Pasolini, di cui è fanatico. Siamo andati ed è stata una figata pazzesca; l’ho già raccontato un sacco di volte, però vedere bambini e settantenni ai concerti e le date su Pasolini, che lì conoscono benissimo, tutte sold out è stato fantastico. C’è anche un aneddoto curioso: quando ci hanno chiamato per questo festival i promoter hanno dato un cachet ottimo; noi contenti matti; nella mail c’era scritto che per i voli dovevamo chiedere noi all’Istituto Italiano di Cultura, “vi pagheranno certamente i voli”. Mi informo, mi sento con Davide e con l’Istituto Pasolini in Friuli e l’Istituto di Cultura qui in Italia: “forse 2 anni dopo vi ripagano…”. Scrivo questa cosa agli australiani, sconvolti, “ma come? Uno spettacolo su Pasolini? Qui è famosissimo”. Allora si sono rivolti loro all’Istituto a Melbourne, dove ci sono duecentomila italiani: “avevi ragione, non gliene frega un cazzo!”. In compenso ho scoperto che lo stesso Istituto ha spostato per intero una festa di un paesino del centro Italia, qualcosa come 20 voli pieni di figuranti per rifare questa festa in Australia… Non ho capito esattamente cosa cazzo fosse, qualcosa in cui si tiravano le arance o una cosa simile. Invece i nostri voli, per uno spettacolo su Pasolini, li ha dovuti pagare il governo della Tasmania.

Mi ha sempre colpito la vostra capacità di essere al tempo stesso assolutamente internazionali e al 100% legati alle vostre radici pisane. Per voi è importante mantenere questo equilibrio?

Non è importante, ci viene automatico. Ne parlavo in questi giorni in un’altra intervista su Pisa, una cosa tipo “I Pisani nel mondo”. Per un periodo l’ho odiata, in realtà è un posto dove ci sono sempre state cose fighissime; per esempio c’era un centro, che si chiamava Macchianera, dove sono cresciuto perché mio padre lo frequentava. Lì per esempio nell’89, a 11 anni, mi sono visto i Soundgarden. Avevo la sala prove lì, suonavamo anche con i Doctor & The Medics, per dire. In pratica avevi un mondo e delle possibilità che potevi avere a Roma se eri al Forte Prenestino, o a Torino a El Paso, o a Milano. Ma a Pisa era meno politicizzato, quindi ancor meglio. Morto quello io son scappato per tornarci solo ora, anche se in realtà ci sto cinque sere al mese. Abbiamo appena fatto un “weekend pisano” con tre concerti in tre sere, perché grazie a Dio a Pisa ci vogliono tutti bene. C’è stato un periodo di transizione e adesso ci sono i giovani che hanno gli Zen come riferimento. Credo sia una delle cose più belle che mi potesse capitare, perché pensavo che una volta esaurita la nostra generazione non avremmo più avuto un seguito così forte. Certo che se mi dovessi dire di star lì 24 ore su 24 non ce la farei, devo sempre essere in giro a fare qualcosa.

Dopo il nuovo disco in italiano, avete già in mente come evolverà la musica degli Zen Circus?

In realtà il disco in italiano è solo uno dei progetti a cui stiamo lavorando adesso. Sono tre: il principale è quello, poi abbiamo fatto un EP punk in cui rivisitiamo canzoni nostre e di gruppi stranieri in versione hardcore, in più faremo anche un disco per l’estero, con queste ed altre cose, in parte in italiano e in parte in inglese. Tra i pezzi hardcore ci saranno cover dei Misfits e Ramones e nuove versioni di “Vent’anni” e “Mexican Requiem”. Poi c’è altro che non ricordo, dato che non ho ancora preso parte alle registrazioni; mentre io facevo le parti di voce per “Andate tutti affanculo” gli altri facevano basso e batteria per queste altre canzoni.

Uno dei vostri punti di forza è stato l’uso di lingue diverse nei vostri testi. Mi ha particolarmente incuriosito “Narodna Pjesma”. Come è nata?

“Narodna Pjesma” in serbo significa “Canzone popolare”. Anche la storia di questa canzone è legata alle richieste di cantare in italiano: per reazione abbiamo deciso di fare un pezzo in serbo. Inoltre io ho i nonni serbi, ma non conosco una parola in quella lingua, così che la canzone è per metà inventata e solo per metà “vera”. Quando senti che c’è la canzone con cui puoi giocare ci giochi, come è stato in quel caso. Per esempio se sento che un pezzo è molto “francese”, lo faccio in francese, viene così, senza schemi precisi. In Italia c’è sempre stata questa divisione tra il cantare in italiano e in inglese. Negli anni ’80 se cantavi in italiano eri un cretino, nei ’90 il contrario, negli anni 2000 tutti e due… Come “rottura” ci veniva da fare dischi anche in sloveno; infatti nell’EP ci saranno lo spagnolo, l’italiano, il finlandese e l’inglese. “Andate tutti affanculo” invece punterà anche sui testi, saranno una componente importante, quindi lì il discorso è diverso, anche se in realtà ce l’abbiamo sempre messa tutta anche nei testi in inglese. Ma mi rendo conto che in Italia per arrivare subito devi scrivere in italiano.

Avete partecipato alla compilation post-Sanremo degli Afterhours. Voi, come Zen Circus, vi sentite parte effettivamente di quella che viene definita scena indipendente?

Dipende. L’idea è ganza, l’unico neo è che a noi è arrivata la richiesta di un pezzo inedito l’11 gennaio, quando eravamo in Australia, e la deadline era il 25 gennaio. Mi immagino che se è stato così per tutti, la compilation non può essere una gran fotografia. Abbiamo mandato il pezzo che era già pronto, abbiamo svelato un pezzo che in realtà era un gioco, che sta bene nel disco, ma che isolato sembra quasi far dire “Ah, gli Zen Circus, quelli di Figlio di puttana, andate tutti affanculo e gente di merda!”. A parte che io non sono un grande fan delle compilation troppo eterogenee, il progetto mi garbava anche. Gli After fanno bene a farlo, anzi mi chiedo perché non facciano cose molto più eclatanti, al loro livello io le farei. L’idea era una figata, però non ho paura di dire che ci sono alcuni personaggi degli anni ’90, gente a cui voglio molto bene, tipo Parente o Basile, con cui non sento di avere molto a che fare. Per esempio non ci sono i Ministri, che possono piacere o non piacere, ma sono un gruppo nuovo, con una storia e qualcosa da dire, o non c’è Vasco Brondi, che è l’unico ventenne che è riuscito a farsi vedere ultimamente. Quando ho fatto quella cosa per XL mi guardavo attorno ed ero il più giovane, a 30 anni… E’ passata un po’ l’idea che la compilation fosse Manuel con la sua cerchia, i suoi amici. Volevo dire una cosa sull’articolo di XL: già dalla copertina era chiaro che si era deciso di far sembrare il tutto una lamentela costante, per esempio a me hanno fatto un’intervista di venti minuti di cui hanno riportato solo un trafiletto in cui dico che mi cagheranno solo quando avrò quarant’anni. Mi è sembrato tutto assurdo, perché rendere questa idea della lamentela collettiva? A me personalmente non me ne frega niente di lamentarmi, perché son due anni che vivo di questo e lo faccio più o meno decentemente, anche se non mi chiamano a “Quelli che il calcio”. Certo, se mi chiamassero non mi tirerei indietro, ci vado, mi faccio due risate, mi metto la maglietta con disegnato il Papa impiccato, qualcosa mi invento. Non mi piace l’idea di lamentarmi e dire “cagatemi”; non l’ho mai fatto quando suonavo per la strada, ho questa mentalità che mi ha tramandato la vecchia scuola punk, cioè vai e fai. Non riesco a lamentarmi, so che c’è chi sta peggio, lavora le sue otto ore al giorno e non esiste al mondo che vado su una rivista a dire cagate perché io sono un artista. Vai, suona e cerca di fare in modo che qualcosa succeda, tutto qui. Sì, qui c’è una tutela minore per l’arte e la musica rispetto all’estero, ma se ci pensi c’è poca tutela per tutte le categorie ed è un problema maggiore. Non è normale, per esempio, che tutti i miei amici, anche laureati, siano più precari di me, che faccio il musicista.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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