Andrea Carboni è un Pisano “infedele”, trascorre l’infanzia tra la città natale e Ginevra avvicinandosi alla musica grazie allo studio del pianoforte. Il primo ep autoprodotto, l’amore manifesto, arriva nel 2006 e due anni dopo vince il concorso per band emergenti noto come Cuoio e Nuvole che gli permette di registrare cinque brani con la produzione di Donato Masci (Rio Mezzanino, Marvin, Tribuna Ludu, M2); tracce che costitutiscono il quaranta per cento de La Terapia dei sogni, completato in seguito all’interessamento di Paolo Messere, mente dietro al progetto Blessed Child Opera e responsabile dell’etichetta di origini partenopee Seahorse Recordings. Il cd di Andrea esce in questi giorni per una nuova divisione dell’etichetta di Messere, chiamata Red Birds, legata a progetti maggiormente intimisti rispetto a quelli della casa madre e già pronta con una serie di uscite imminenti segnalate anche sul profilo myspace di riferimento; in relazione al catalogo nascente della RB Il debutto full lenght di Carboni conferma certamente la tendenza a privilegiare la linea di un pop sofisticato, da camera e con alcune venature folk, ma nel caso di Carboni con una forte caratterizzazione Italiana; lo sviluppo della scrittura in forma ballata che costituisce il nucleo de La Terapia dei sogni passa da Buckley figlio, le influenze francofone di De Andrè, alcune recenti produzioni Asthmatic Kitty e un mood che materializza le atmosfere di un’epica negativa ed oscura vicina per certi versi ai verticalismi di Paolo Benvegnù e a tutti quelli che gli fanno il verso senza fare pubblica ammenda. Carboni in questo senso supera assolutamente la media degli ultracorpi sguinzagliati sul nostro territorio grazie ad un talento non comune per la sfumatura e la drammatizzazione; capacità che con pochi e semplici elementi gli permette di attraversare terre conosciute con un approccio visionario; è il caso di Livido, della tempesta minimale di Fingi, dell’immaginaria e strumentale Magici Mondi, vicina a quel “Post-rock” di casa nostra, così romantico e così fuori tempo massimo, ma tutto sommato suggestivo. Chi ha visto Andrea Carboni dal vivo sa bene come le sue performance si reggano in piedi su una strategia teatrale di sicuro effetto; da solo, si fa sostenere da un looper simile a quello utilizzato da Julia Kent, rivelando un senso della scrittura orchestrale molto acuminato; quello che invece sfugge e che ci sembra funzionare molto meno soprattutto nella versione “studio” della sua musica è la voce, troppo aderente alla retorica dei testi, troppo vicina ad un oggetto che ogni tanto avrebbe bisogno di un bel gesto dell’ombrello per rendere più vive le cose, troppo legata ad una postura da chansonnier che a tratti sembra modularsi sulle intuizioni già battute da Carmen Consoli con maggiore credibilità; il risultato è allora monolitico e a tratti difficile da digerire. Aspettiamo con curiosità il prossimo capitolo.