A tre anni dall’acclamato Chimera tornano i romani Ardecore, con un doppio album articolato attraverso un concept oscuro e ambizioso. Le figure di San Cadoco e Santa Gilda – interpretate rispettivamente dal cantautore e mastermind dell’intero progetto, Giampaolo Felici, e dalla new entry Sarah Dietrich – sono funzionali a tracciare un tragico affresco dell’amore, vissuto sempre e comunque come esperienza lacerante e distruttiva. Il tema affonda le radici nella tradizione popolare romanesca di mezzo secolo fa, e si riflette sulla nostra condizione attuale. Il primo disco, San Cadoco, si compone quasi esclusivamente di inediti. Anche stavolta le composizioni originali di Felici attingono al folklore borgataro, tuttavia la presenza in studio di una formazione stabile contribuisce a colorare gli arrangiamenti con tinte oscure, tipiche dell’hard rock anni ’70. Batteria, percussioni, contrabbasso, tastiere, fiati e la ruggente chitarra elettrica dell’ospite Manlio Maresca molestano i brani con inserti acidi e abrasivi. Esemplari in questo senso il ritornello Sabbathiano di Meravigliosamente, ma anche la power ballad Gronge Meraviglia, o l’infernale sarabanda hard-folk Il Nuovo Giorno. Altrove, Oggi è Domenica o la rilettura di Tentazione (un classico degli anni ’30), traspare un’anima ubriaca e lerciamente cabarettista, a metà tra Tom Waits e i Gogol Bordello. L’intera operazione suscita una certa curiosità, ed è lodevole il tentativo di sposare la scrittura cantautoriale agli stilemi della tradizione rock. Tuttavia, non si può fare a meno di notare una certa debolezza compositiva: non sempre i brani sembrano frutto di un’accurata riflessione armonica, mostrandosi spesso approssimativi, appena abbozzati. Si veda al riguardo l’apripista Per Quella Lei ci Muore, in cui la devastante base ritmica – qualcosa a metà fra l’hardcore e la taranta – non riesce a nascondere del tutto le pecche della scrittura. Fortunatamente il secondo disco, intitolato Contemplazione di Gilda e Cadoco sul Mistero dell’Origine, riporta il gruppo a cimentarsi con la reinterpretazione del repertorio popolare. Il carattere già greve delle murder ballads capitoline viene ulteriormente accentuato, raggiungendo a tratti una dimensione sorprendentemente oscura. Se nel primo disco l’elemento di novità era la ricchezza degli arrangiamenti, qui si gioca tutto di sottrazione. La voce lunare della Dietrich, accompagnata da percussioni ataviche e flebili carillon, intona serenate disperate, ninne nanne psicotiche, canti di amore violenti e drammatici, retaggio di una Roma senza tempo. Da brividi Io de’ Sospiri, Te Possino da’ Tante Cortellate e soprattutto la spettrale I Biondi Capelli. Nonostante gli spunti interessanti e qualche vetta di eccellenza, tuttavia, l’album nel suo complesso si rivela una promessa solo in parte mantenuta.