Si fa presto ad impilare nomi cognomi e derivazioni. I bresciani Aucan producono un rock strumentale assolutamente fisico e umorale, nonostante la matematica sia probabilmente tra le loro preferenze, la combinazione in trio che include due chitarre, una batteria e due tastiere fa scivolare il risultato dalle parti di una forma più libera e improvvisativa; da una parte c’è una solidità e una tenuta ritmica degna dei Faraquet più accesi e dall’altra il lavoro sulle tastiere gli permette di elaborare una poetica del tutto astrale. La sensazione, nonostante un’atmosfera decisamente cupa e ossessiva, problema di tutto il rock strumentale prodotto oggidì che guarda agli anni ’90, quindi posseduto da una tensione king-crimsoniana Neurotica e psicotica, è che qui dietro ci sia molto di più; oltre ad un livello libero e improvvisativo che ha molto del gioco, gli Aucan sembrano far riferimento a tutto quel Jazz elettrico, visionario e imbastardito che si affacciava intorno agli anni ’70. Il bello è che non sono gli Isotope 217, ovvero, sfuggono alla grande il rischio di rimestare il solito brodo di cagna e al contrario si lanciano in un’avventura sonora davvero potente e insospettabilmente originale. Pubblica African Tape in stretta collaborazione con Ruminance.