A un anno da Come! i Baby Blue tornano con il loro nuovo disco, We Don’t Know. Non fatevi ingannare dal titolo della raccolta però, i quattro toscani in realtà sanno benissimo cosa fanno e come farlo. Serena Altavilla e compagni hanno infatti trovato col tempo la loro via, una via piena di spigoli, che prende l’indie rock, il post-punk, i Velvet Underground e i Sonic Youth, li mescola con decisione e li ripropone in una versione assolutamente personale, coraggiosa, a tratti ostica, ma sempre e comunque appagante. In questa occasione più che nelle precedenti nella produzione il quartetto (coadiuvato da Alessio Pepi) ha deciso di lavorare per sottrazione, senza alcun horror vacui: in più di un momento ci sono solo le voci di Serena e Mirko, oppure una chitarra elettrica assieme ad un drumming secco ed essenziale a riempire lo spazio, battendosi alla pari con il silenzio prima dell’arrivo di improvvise tempeste elettriche a spazzare il campo di battaglia. L’ascoltatore si trova immerso in un mondo pieno di contraddizioni e di inquietudini (non a caso in quasi ogni testo appare un riferimento a morte o uccisioni), in una giostra da luna park dell’orrore da cui è quasi impossibile scappare e alla quale ci si avvicina con timore, ma assolutamente affascinati. La prima delle 10 tracce di We Don’t Know è Don’t Ask Me Why, che già fa capire molte cose di ciò che accadrà nei 35 minuti successivi: è infatti una specie di filastrocca malefica, che pian piano si sposta fuori asse creando lampi sinistri per poi annegare in un mare di distorsioni. Si continua poi con la calma apparente di Oh Marie e con l’ottima Shut Up, che mescola strofe velvettiane a ritornelli che sono vere e proprio esplosioni soniche, tra grunge, riot grrrls e qualcosa dei primi Radiohead. Tocca poi a I Don’t Know, che è un botta e risposta tra Serena e Mirko (che alla fine vogliono solo dormire), mentre la successiva Hey Baby Hey assume invece la forma di un carillon malato, che pare riprendersi solo per dire “If we don’t kill/we won’t get tired”. Earthquake è basata su un bel riff di chitarra, come dei Kills con meno cocaina, meno coolness e molto più spirito rock; Stay A While alterna momenti di calma da domenica mattina ad altri pieni di angoli, così come la seguente All Right, con i Sonic Youth sullo sfondo. È Dawn, con il suo caos organizzato, a preparare per il finale, gli oltre sei minuti di Porto Palo, che sublimano il disco riunendo tutti gli elementi disseminati in precedenza: melodia e distorsioni, sguaiatezza punk e post-punk, chitarre e ritmiche mai “normali”, sperimentazioni e inquietudini, sempre nel nome della creatività e dell’originalità, a porre i Baby Blue tra i gruppi più interessanti dell’attuale scena italiana.
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