A chi piace prendersi sul serio e gridare forte frustrazioni, depressioni, lacerazioni dell’ anima, il tutto con forti connotati adolescenziali e nostalgici, accompagnando il cocktail emozionale con volumi improponibili nella maggioranza dei piccoli circoli che fanno (e sostengono) la musica dal vivo nel nostro paese, possono certo strapiacere i Betty Ford Center. Della serie “a volte ritornano”, il grunge più collaudato, risuonato e risentito che il panorama italiano, a vent’ anni di distanza, continua (oserei dire in modo miope) a proporre. In pratica un disco del ’96, quando la spinta anarconoclasta di Seattle era al crepuscolo e quella smargiassa californiana cominciava a sostituirla. E c’ è proprio tutto: la cantante che si veste di nero, con il trucco pesante agli occhi e vari pizzi e bracciali di perle decorativi, con una voce che per ora offre solo potenza promettendo che un giorno canterà come Courtney Love, e nel mentre si accompagna alla chitarra, e gli altri due componenti che, nel dubbio, stanno al passo, purché si faccia casino. Pedale dell’ overdrive spinto, tempi sincopati e charleston sempre aperto. 16 tracce sono un’ eternità, specie quando Il messaggio è solamente il seguente, noi siamo maledetti, noi siamo alternativi, noi siamo rock ‘n’ roll. Per ora non mi sembra il massimo, ma chissà. Insomma, li si ama o li si snobba. Esistono da un bel po’ e i ragazzi ci credono. Probabilmente reggeranno gli urti delle mode.