Le canzoni sono quattro e vi troverete dentro una risposta convincente alla domanda “Come fare ad evitare lo stress per il secondo album dovuto alle altissime aspettative dopo il largo successo del primo?”, ovvero: incidere invece un EP che lasci respirare tutti, autore ed ascoltatore. Non che Vernon abbia fatto un passo a lato e se la sia (p)resa facile, questo no. Anzi: nell’anno abbondante che è trascorso da quando For Emma, Forever Ago (recensito da questa parte su IE) ha cominciato a spopolare nelle playlist di ogni essere senziente sul web, Vernon ha trascorso molto del suo tempo adattando il suo repertorio per gli spettacoli live, che sono stati non meno che numerosi. Per questo la band (perché di band questa volta si tratta davvero, dacché a registrare le canzoni erano tre persone questa volta) che ha dato vita a questi quattro nuovi brani ha prodotto qualcosa che è sia compatibile con il suono del Bon Iver che abbiamo imparato a conoscere, sia, in qualche modo, più a fuoco, più concreto della one-man-wonder di For Emma…. Lo stesso Vernon ha argomentato che se il primo album riguardava il freddo, Blood bank riguarda il calore, intendendo probabilmente la questione non dal punto di vista emotivo come alcuni hanno creduto (ché di album più emotivi di For Emma… è difficile farne..), quanto dell’approccio alla canzone. Ovvero: se l’album era etereo ed avvolgente nel suo debordare fuori dalle canzoni stesse, nell’accavallarsi di melodie, accenni, atmosfere, l’EP lo è invece di meno, fatto com’è di linee vocali e arrangiamenti su cui Vernon non ha dovuto convivere (come con For Emma…) per mesi con ripensamenti mentre le giornate scorrevano lente durante il periodo che si era dato per riabilitarsi al mondo (a causa di inconvenienti artistici e personali). Questa volta si è trattato “soltanto” di suonarle con i suoi compagni. Ecco, forse è questa la maggiore pecca di questo Blood bank: il suo suonare più normale, ma in un modo che è tuttavia più che soddisfacente quando si ha in mano un CD di quattro canzoni: si può così prendere e ascoltare una qualsiasi delle prime tre tracce e riconoscere senza l’ombra di dubbio tutta la poetica di Vernon: i sussurri (magari in falsetto) che sospendono e al contempo condensano le emozioni, i silenzi che contano come i frusciare armoniosi di corde. Non senza qualche sussulto e (piccola) sorpresa, certo, come in “Babys” ad esempio, dove un pianoforte crea un effetto di sospensione a suon di discordanze.
Altro discorso è invece la conclusiva “Woods”: interpretata per intero a cappella con l’ausilio di un vocoder in un crescendo di voci (dello stesso Vernon) raddoppiate su una stessa melodia leggermente variata volta per volta, appare a tutta prima perlomeno bizzarra se non sgradevole per l’effetto sonoro d’antan del vocoder (incubi con Giorgio Moroder si materializzano di tanto in tanto durante i primi ascolti), ma –nonostante difficilmente verrà ricordata come uno dei suoi pezzi più riusciti- dopo ripetuti ascolti riesce a farsi apprezzare per uno strano senso soul che sembra pervaderla: un soul in cui le voci ripetute nelle tonalità più alte ricordano onomatopeicamente le grida di lupi nella notte, il soul di un mondo in cui gli umani sono rimasti pochi, soli, e bisognosi di calore.