La Mashhh! Records produce i suoi artisti su diversi formati, dal digitale al supporto fisico, “limitando” quest’ultimo alle due forme più rappresentative di analogico (vinile e musicassetta). La filosofia di questa etichetta – che tale non vuole essere (almeno per definizione) – racchiude il senso di quell’imprenditoria etica che in Italia sembra non aver spazio in nessun ambito: condivisione dei successi e degli insuccessi, divisione equa del lavoro, nessuna prevaricazione fra gli attori di uno spazio comune, coincidenza dell’artista con la figura del discografico in termini promozionali. Finalmente svelato l’arcano dell’essere “indie-pendenti”. Uno degli sfoggi della Mashhh! Records sono i meritevoli Casa Del Mirto che a dispetto del nome, non sono sardi: provengono infatti da Trento e ci tengono (giustamente) a precisarlo. Marco Ricci e soci (i summenzionati Casa Del Mirto) hanno dato vita a 1979, un progetto – come i suoi predecessori – capace di catalizzare l’attenzione del web con un sound lo-fi, nessuna improvvisazione anglofila ed un revival concettuale che è tutto un programma. La “macchina del mirto” riscalda i “motori” con l’intro History, un’accelerata di synth ed effetti vintage pronti a diffondersi per tutto il disco, un avvertimento che la navicella tornata dal passato ha portato con sé qualche bel “presente”. Già The Right Way vuole essere chiara: un manifesto chillwave che anticipa altrettante aspiranti canzoni downtempo, lisce e cadenzate allo stesso tempo. Se il sound si può collocare (ammesso sia legittimo farlo) nella categoria del synthpop amatoriale, la produzione lo-fi, non deve però far pensare strettamente ad affini quali gli americani Xiu Xiu e al loro spin-off Former Ghosts o ancora, a nomi come Beach House. La “bassa fedeltà” è qui un pretesto per abbellire concettualmente (dal ripescaggio di formati inusuali al genere musicale vero e proprio), la cornice discorsiva del disco. Si ascolti la credibilità storica del primo singolo The Haste, non si saprà discernere tra la possibilità che sia un pezzo realmente datato “late ’70” o il fatto che si tratti di una produzione attuale missata nello studio californiano di proprietà di qualche grande discografico. Ci sono due aspetti che colpiscono l’ascoltatore di 1979, il primo è la qualità intrinseca del suono (tipica delle grandi produzioni), l’altra è la funzione accessoria (rispetto alla base) della parte vocale. In Killer Haze, ad esempio, ci si dimentica quasi del cantato mentre i fiati sintetici volano timidi su drum-machine degne della migliore porno groove di quegli anni. C’è pure spazio per qualcosa di estremamente spiazzante: la delicata e semi-acustica Pain In My Hands, più vicina alle produzioni di William Orbit (ai tempi di Beth Orton e Madonna) è un neo e tale rimane. L’episodio migliore è Fairy Tales For Moonwalkers, sinistra, apprensiva, perfetta per una serata disco a tema “monster”. Viene da chiedersi chi sia quella donna in copertina, quel ricordo che emerge dal passato, prendendo forma come un’istantanea di fine anni ’70 (primi ’80), l’unico cimelio rimasto in nostro possesso dopo questo viaggio turistico nel “fuori moda”, che tale non è, poiché – grazie a Casa Del Mirto –, dopo averlo visto invecchiare in qualche vecchio scaffale (il vintage), possiamo finalmente degustarlo in tutto il suo aromatico splendore.