domenica, Dicembre 22, 2024

Clap Your Hands Say Yeah! – Hysterical (V2 Music, 2011)

Portavoci autorevoli dell’indie newyorchese di inizio millennio, i Clap Your Hands Say Yeah! tornano sulle scene con il terzo LP dopo ben quattro anni dall’ultima uscita Some Loud Thunder e altri progetti paralleli, dei quali si ricorda quello del cantante Alec Ounsworth, i Flashy Pythons, messo su insieme ad altri membri dei Dr. Dog. Un arco di tempo considerevole, che si giustifica comunque con la decisa svolta sonora della band, guidata questa volta dall’attenta regia di John Congleton (produttore, fra gli altri, degli Okkervil River). Un riconoscibile filo conduttore ha accomunato diverse band della East Coast che godettero di una gran fetta di notorietà otto-dieci anni or sono: cercare di sostituire le chitarre, soprattutto sfruttate sotto il profilo ritmico, con corposi tappeti sintetici. Dunque tale approccio, incline ad enfatizzare e rimpolpare la massa sonora, ha fatto presa su tanti, con esiti alterni, tra i quali non possiamo non citare le recenti delusioni di Yeah Yeah Yeahs e The Rapture. Anche il quartetto brooklynense non è rimasto indenne da questa tendenza, ma qui il risultato in sé e per sé non è disdicevole, perché le canzoni, sebbene non tutte siano all’altezza o di immediato impatto, ci sono. Sono forse alcune scelte di arrangiamento, consistenti principalmente nell’affossare il versante ritmico per prediligere esclusivamente quello armonico, a non convincere appieno, soprattutto nell’iniziale Same Mistake, che rappresenta quasi il lato solare di una Love Will Tear Us Apart tirata allo spasimo, nella quale, però, la batteria viene letteralmente e inspiegabilmente soffocata a metà pezzo. E anche nella successiva title track il debito verso i figli adottivi della band mancuniana (Interpol) è fin troppo in evidenza. In effetti, a discapito della personalità del disco (personalità che agli esordi il gruppo aveva, eccome) va un po’ il tentativo di sferrare un colpo al cerchio e uno alla botte, ossia il gettare un occhio ai Cure più orecchiabili (e nemmeno troppo risalenti) e uno all’era più recente, per le nuovissime generazioni che incensano gli Arcade Fire. Con questi ultimi si può dunque tentare di stabilire un confronto. Valga per entrambi i gruppi: nessuno dei componenti di essi sembra un musicista per cui spellarsi le mani, ma ciascuno è utilizzato inserendosi secondo le proprie capacità in canzoni scritte comunque con il cervello, fermo restando che il confronto è a tutto vantaggio dei canadesi. Anche il timbro di Ounsworth risulta congeniale alle melodie stesse solo in parte, sebbene il suo birignao sia meno sfrenato che in passato (e al di là dei gusti personali), ma che finisce per appiattire troppo non solo i singoli pezzi ma anche le (lodevoli) intenzioni eclettiche del disco. All’attivo, invece, ci sono due ballate molto belle, una (Misspent Youth) che, per rimanere in tema, sembra una Rebellion (Lies) sospesa nell’aria e l’altra dai più tratti più marcatamente onirici e romantici, dominata com’è da un maestoso mellotron (In A Motel). Inoltre, gran merito degli aspetti positivi dell’album va attribuito a parti di chitarra scritte senza mai strafare e con un gusto innato per le atmosfere e, proprio per questo, il rammarico aumenta allorquando queste sfumature si perdono in arpeggiature di dubbio gusto cercando l’effettaccio tipico dei Muse (Maniac e Yesterday, Never). E in fondo il brano finale Adam’s Plane costituisce la summa finale del disco: canzone sicuramente scritta nel dettaglio, con buone idee iniziali, ma sprecata in un arrangiamento enfatico, in cui si tenta di dire troppo, per di più in troppo tempo. Alla fine ne esce un disco fra luci e ombre, sicuramente rappresentativo di una buona fetta della Grande Mela, con spunti più che buoni, ma forse troppe pretese. Sufficienza piena, ma l’amaro in bocca rimane.

Clap Your Hands Say Yeah!  su myspace


 

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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