( da questa parte puoi leggere la foto intervista di Giuseppe Zevolli e Chiara Gabellini realizzata durante il tour dei Clinic In Italia, dicembre 2010)
Il sesto album in studio dei Clinic, a dieci anni dall’intramontabile perla di revival post-punk Internal Wrangler e a tredici dal primo EP autoprodotto, aspira a una leggera renovatio, a una sorta di momentanea deviazione dal loro sound più noto, riconfermato nella sua originalità già negli ultimi due lavori, Visitations e Do It!. A ruvidità garage e risvolti punk viene preferito un suono nel complesso più pacato, disteso, volto a creare atmosfere più sognanti e delicate. La consueta stranezza dei testi e delle immagini, congenita alla band, impedisce di etichettare banalmente l’impresa nel contenitore dream pop, distante davvero anni luce dalle loro mai rinnegate radici psichedeliche. Il primo singolo I’m Aware apre il disco scoprendo le carte in tavola: introdotto dal tocco gentile di una chitarra acustica, si muove delicatamente come una vera e propria ballad, supportata da cori e arrangiamenti di archi, per i quali i Clinic hanno chiamato in causa il produttore John Congleton, già corresponsabile delle celestiali aperture dell’ultimo disco di Bill Callahan. La voce di Ade Blackburn rinnega per l’occasione la propria acidità intrinseca riscoprendosi pulita e malleabile. Già con la title-track torniamo in territori più riconoscibili, ma è ancora un tono pacato e nottambulo a dominare la scena, confermato dalla malinconica Baby, una preziosa smanceria pop che fa pensare ai nostri sotto sedativi, in uno stato di trance autoindotta. Lion Tamer spezza l’incanto e tra synth, marimba (preziosa aggiunta alla collezione di strumenti vintage della band) e batteria, ricorda nel ritornello l’incedere inconfondibile di Dropout Boogie di Captain Beefheart, padre assoluto della sperimentazione psichedelica. Linda dà un altro assaggio del nuovo appeal, alternando chitarra acustica a spruzzi di rumorismo fuori contesto. Con Milk & Honey inizia un po’ a perdersi la novità e non resta che lasciarsi cullare dagli archi e dalla voce di Ade. Radiostory rilancia le aspettative con il racconto parlato di un incontro amoroso tra il romantico e il torbido, mentre Forever diverte alla vecchia maniera recuperando una vena infantile che ben si accorda con lo spirito baldanzoso dell’intero album. Un ultimo guizzo a mo’ di sorpresa è la finale Orangutan, una specie di furbo congedo per chi ha sentito la mancanza dei Clinic rockers che avevamo lasciato con Do It! due anni or sono. Negli ultimi trenta secondi il pezzo sfuma con la sola voce di Ade assieme a un’esile chitarra, chiudendo nostalgicamente l’album descrivendo un amore lontano. Non si può bacchettare Bubblegum perché manca degli ingredienti vincenti del gruppo di Liverpool: a ben vedere ci sono ancora tutti, ma largamente stemperati con questa nuova verve trasognata che confonde gli animi e fatica a lasciare il segno. Basta anche solo la vocalità di Blackburn unita alle strumentazioni vintage a delineare le peculiarità del gruppo, ma la produzione impeccabile e la neoacquisita morbidezza sembrano dare, anziché nuovo ossigeno, l’impressione di un gradevole, talvolta incantevole temporeggiamento dopo dieci anni di conferme. Che lo shock sia dietro l’angolo?