Trascorso qualche anno dalle lambiccate e mordaci declinazioni pop degli Albanopower e dai primi gemiti racchiusi nell’omonimo ep, torna, con Un meraviglioso declino, Colapesce. Tredici tracce di pop sfuggente ed obliquo, affascinate ed affascinanti, che ribadiscono quella sua abilità particolare a setacciare, tra le molteplici influenze, l’ingrediens novus, sì da metterlo al servizio di melodie sempre fresche ed intelligenti. Tutto al posto giusto e nel modo giusto, insomma. Arduo pertanto immaginarne passaggi a vuoto, soprattutto perché la presenza quasi immutata dei soliti compagni di viaggio rende assai seducente l’idea che Colapesce non sia una vero e proprio solo-project, quanto un modo diverso per mettere a nudo la propria voglia di raccontarsi.
Lo si intuisce da liriche così “ingenuamente” limate sulla quotidianità «…ti porterò in India, giuro ti ci porto, anche senza un rene…» , ove l’ideale classico dell’eroe viene capovolto, trafugato, distorto quasi istintivamente, dalle dinamiche della working class. Semplici e diretti, i testi di Lorenzo Urciullo sanno ridonare plasticità ad un pomeriggio al mare, ad una cenetta in casa, ad una giornata qualunque di un uomo qualunque in una città qualunque, senza l’ausilio di arzigogolate strutture retoriche, il più delle volte sottilissimo clipeo contro l’impotenza del messaggio, così come Carver o Bukoswki ci hanno insegnato, così come la vita stessa continuamente non smette di descriverci.
Contraltare per tale schiettezza è invece il folk-pop variegato ed imprevedibile, rischiarato dalla vermiglia rilucenza dei tramonti Wilco, visti magari à la maniera di Jonathan Wilson e Will Oldham (Le foglie appese, S’illumina, Il mattino dei morti viventi), efficace ed espressivo anche quando riesce a districarsi di sponda su pimpanti atmosfere serrate (La Zona Rossa), o a farsi addomesticare dalla dolcezza acustica di incantevoli nenie popolari (Bogotà, La distruzione di un amore) od ancora turbare da una certa irrequietezza immateriale Lali Puna (Oasi).
Esplosioni epiche ed irriverenti, incursioni giocattolose ed appropriate, citazioni più o meno invaghite del placet dell’amico Raina (Amour Fou, Giardini di Mirò, Casador), che non pagano però chissà quale oneroso pegno nei confronti dell’arrendevole ed immanente bellezza di certi brani (Restiamo in casa, Satellite) così dannatamente radio friendly, altresì nitidi come scorci di maturità cosciente di ciò che un buon disco debba imprescindibilmente possedere. Poi, quando tutto tace ed anche gli ultimi bagliori sembrano dissolversi come la fiammella sul mozzo di una candela, quando tutto sta per spegnersi e la porta che, chiudendosi sulla stanza dietro di noi, ne ovatta i suoni all’interno, ciò che resta è comunque l’urgenza e la consapevolezza di avere molto altro da raccontare. Ed a noi questo far stare già meglio. Urciullo lo sa. Noi lo sappiamo.