Speciale in 4 parti dedicato a Ian Curtis e i Joy Division; la cronologia dell’intero speciale si consulta da questa parte
In Closer (1980), pubblicato a breve distanza dal suicidio di Curtis, la rigidità monocromatica di Unknown Pleasures viene superata in favore di un ampliamento della tavolozza sonora. Rispetto al predecessore le composizioni dimostrano una vena sperimentale decisamente più marcata. I richiami ai Kraftwerk sono evidenti nel massiccio – seppur rudimentale – utilizzo dei sintetizzatori. Numerosi anche gli episodi sul versante rumorista, così come sicuramente maggiore è l’attenzione verso le possibilità di manipolazione del suono offerte dallo studio di registrazione.
Atrocity Exhibition apre le danze in un tripudio di tom tom tribali. Il basso cavernoso di Hook fluisce liberamente, in sintonia con lo sviluppo del testo. Sumner, impegnato in un autistico tête à tête con il suo amplificatore, genera ondate di feedback atonali e dissonanze metalliche. “Questa è la strada/entrate” mormora Curtis, per l’occasione anfitrione di un “manicomio a porte aperte” – luogo osceno appartenente ad un altro tempo e ad un altro luogo – in cui esseri ormai privi di qualunque umanità si intrattengono alla vista delle sofferenze altrui. Anfitrione, ma anche attrazione principale dell’intero baraccone: come è possibile non riconoscere l’epilettico frontman nella figura che gli spettatori osservano contorcersi?
La marziale cadenza in 2/4 e gli eterei sintetizzatori che fanno da sfondo ad Isolation sembrano sottintendere la svolta electropop dei New Order. Su vorticosi giri di basso, Curtis – novello San Antonio, tentato dai piaceri terreni – rievoca il tormento di monaci ed eremiti, implorando perdono per i propri peccati (“Madre, ho provato, ti prego di credermi/sto facendo del mio meglio/ mi vergogno di quello che sono stato spinto a fare/mi vergogno di quello che sono”).
“Ecco la crisi, sapevo che sarebbe arrivata a distruggere l’equilibrio che avevo costruito”, recita con tono cupo il cantante in Passover. La batteria sincopata e gelida evoca un senso di tragedia imminente, la chitarra irrompe saltuariamente con fraseggi lancinanti, carichi di tensione.
Colony, dall’andatura incespicante e robotica, suggerisce immagini di famiglie distrutte e dolorose separazioni, in nome di una missione superiore (un’opera di conversione?) che deve essere portata a termine. Ancora una volta, l’irrazionalità del fervore religioso ossessiona morbosamente la fantasia di Curtis (“Il buon Dio, nella sua saggezza, ti ha preso per mano e ti ha fatto comprendere”). L’implacabile sezione ritmica si pone in controtempo rispetto alla chitarra di Sumner, qui tagliente come una lama di rasoio.
A Means to an End affronta la fine di una relazione che sembrava eterna ed incorruttibile. Basso e batteria ipotizzano una discomusic per androidi paranoici, la chitarra attraversa acida lo spettro sonoro, conducendo il pezzo verso splendide aperture melodiche.
La seconda facciata dell’album è caratterizzata da atmosfere e sonorità differenti, la tensione cede il passo alla rilassatezza, la lotta disperata alla rassegnazione. Anche la voce di Curtis, abbandonate le asperità più evidenti, sembra provenire da un luogo senza spazio né tempo, come se il tormentato frontman si fosse finalmente arreso al proprio destino.
Una linea di basso memore della lezione dub costituisce l’impalcatura sonora di Heart and Soul. Il canto evoca come mai prima lo spettro di Morrison, le parole esprimono quasi un manifesto della poetica Curtisiana: “Che cosa importa dell’esistenza?/Esisto nei termini migliori possibili/il passato è già parte del mio futuro/il presente è fuori dal mio controllo”. Twenty-four hours contrappone strofe tese e laceranti ad interludi introspettivi, in parallelo con l’alternanza fra i dolci ricordi di “quel che un tempo era stato amore” e la tragica situazione attuale, dove tutto ciò che rimane è “una collezione senza valore di speranze e desideri del passato”.
Le esequie evocate in The Eternal sono accompagnate da struggenti accordi di pianoforte mentre il rullante, pesantemente effettato, scandisce una cadenza da marcia funebre.
In chiusura avanza lenta Decades, forse la composizione più raggelante dell’intero repertorio, un tappeto di percussioni metalliche cui si appoggiano malinconiche trame di sintetizzatore e i singhiozzi del basso di Hook. Curtis ci lascia con l’immagine di “giovani uomini” che si trascinano esausti, sfiduciati e sconfitti a causa delle sofferenze patite in vita: ”Dove sono stati – si chiede – per portare questo fardello sulle proprie spalle?”
Un fardello a causa del quale egli stesso sembra aver compiuto un gesto definitivo e inequivocabile.