Ho riascoltato diverse volte questa autoproduzione, per certi versi anche indomita, perché il lavoro che i sassaresi Grinpipol hanno fatto sulla loro omonima uscita è davvero ben fatto, oltreché di pregevolissima coloratura (verde ovviamente) a livello di packaging. Avevo tuttavia alcuni dubbi riguardo a una mia personale considerazione del mondo indipendente italiano. Un mondo che in realtà è contraddittorio e sfaccettato e che non premia né i più bravi, né i più originali, né i più leccaculo, ma solo chi è al posto giusto nel momento giusto. C’ è da chiedersi come si faccia a trovarsi lì se non per caso, e soprattutto in cosa consista il premio, ma questa è metafisica. Fatto sta che i nostri pare non ce l’ abbiano ancora fatta. Tornando invece a bomba sull’album in questione ho scelto di analizzare dati inconsueti seguendo canoni di valutazione che in genere non prendo in considerazione. Innanzi tutto la geografia. Probabilmente Sassari è interconnessa con il resto del mondo più di quanto lo siano posti in egual misura periferici come Firenze, Genova, Bologna e l’ Italia tutta, ma che certo non hanno il mare che li separa dal resto del continente, voglio dire che trovarsi una serata fuori dai soliti “giri” non dev’essere un giochino da ragazzi, visto che i traghetti tanto per cominciare non li regalano e che andarsi anche a vedere un concerto fuori dalla Sardegna è impresa impegnativa. E poi l’ essere isola può accomunare certe sonorità e sensibilità alla Gran Bretagna, di fatti mi viene in mente che Willie, il bidello dei Simpson, è scozzese in lingua originale e sardo nella traduzione. Quindi non distrae ritrovare nei Grinpipol similarità con la musica britannica, anche se con una base molto più rock’n’roll del solito, molta più grinta. L’ ultimo e superficiale dato geografico che ho analizzato è che, aldilà dei luoghi comuni, in Sardegna non si suonano solo launeddas mangiando pecorino, e che noi del continente siamo solo cafoni che di gruppi sardi conosciamo solo i Tazenda. Secondariamente ho valutato la compostezza e la coerenza di un disco che è precisissimo. Nove pezzi, una durata esattamente giusta, ovvero quella che richiede un orecchio umano non particolarmente ansioso o affascinato nell’ascolto (saremo poco oltre la mezz’ora non vorrei sbagliare…), una scaletta ben pensata e per finire nessuna stonatura o disturbo tra pezzo e pezzo, tipo campioni, ripresa di prove o chiacchiere, scarabocchi con le chitarre ecc. Insomma preciso andava benissimo come aggettivo. Infine la carica. Questo disco lascia trasparire una voglia di suonare non comune, si intuisce quasi ad ogni pezzo, e questo certo suscita una certa curiosità. Se a questo si aggiunge che la musica proposta è quantomai pertinente per quasi tutti i locali che fanno musica dal vivo in Italia, si potrebbe concludere il tutto con la seguente formula: la demo perfetta. Fatti salvi tutti i fattori enunciati in precedenza. Ho tirato via invece sui sui parametri soliti, in quanto l’ originalità e la sperimentazione sono trascurabili, il cantato in inglese comincia inevitabilmente a stancare e (per chi è in mala fede) a introdurre il sospetto che si abbia poco da dire, e che si stia in generale cavalcando un’onda spalmatasi a riva da un bel pezzo. Ci possono stare, ne hanno tutto il diritto.