Si è fatto attendere il secondo album di Francesca Lago, a più di un decennio di distanza da quel Mosca Bianca con cui esordì nel 1997. L’ottimo EP del 2008 The Unicorn rispolverava il solido cantautorato dell’artista, segnando l’adozione dell’inglese per i testi e mettendo insieme dei piccoli capolavori folk-rock a stimolare il nostro appetito. Con questo nuovo disco, concepito tra Londra e Milano, Lago ci consegna un piatto più ricco, poco più di trenta minuti in cui sembrano rincorrersi attraverso i brani la sensibilità e il vigore del suo songwriting, il suo piglio più minimalista e l’anima inconfondibilmente rock, entrambi invischiati in un fruttuoso cortocircuito. Ad aiutarla nello stendere queste sfumature il basso di Marco Ferrara, la batteria di Francesco Miccolis e, in gran risalto, il violoncello di Zeno Gabaglio con cui la voce e la chitarra di Francesca dialogano alla perfezione, restituendo un mood malinconico e trasognato che riesce a coniugare in più di un’occasione intimismo e orecchiabilità. La traccia di apertura, On My Way Back from The Moon, ne è un chiaro esempio. La morbidezza della chitarra e la voce sussurrata degli episodi più rarefatti, (To The Wild) trovano una loro controparte nei pezzi più ripidi, come la concitata e imprevedibile Leech, la corsa spericolata del singolo Slapstick, fugace perla rock dal ritmo sferzante, e l’esplosione che anima Treasurer The 5th, dotata di un retrogusto 90s che affiora altrove nel disco (Still Before The Spell, la cantilena à la Cranberries di Bad Dream.) L’uniformità di buona parte dei brani subisce una metamorfosi in itinere mediante qualche virata noise o il richiamo del violoncello, vera fil rouge del disco assieme alla duttile voce di Francesca. Quando le atmosfere perdono in corposità si palesa una notevole carica espressiva: per questo spiccano Hey Hey Sentry e l’interludio Do You Know Where To Go, in cui l’accoppiata voce-archi modula un’esile inquietudine capace di lasciare il segno. Un bel ritorno e una grande ripartenza.