Nella storia dell’hardcore i concept album sono una vera e propria rarità: difficilmente la furia che contraddistingue il sotto-genere del punk può essere incanalata e diretta in modo tale da raccontare una storia o da sviscerare un argomento con dovizia di particolari, e ancor più difficile è trovare una varietà di suoni tale da riempire un disco (o anche due) senza annoiare l’ascoltatore, al di là dei contenuti. Probabilmente gli unici ad esserci riusciti veramente sono stati gli Hüsker Dü, con il loro capolavoro assoluto Zen Arcade, il doppio album che nel 1984 cambiò la storia del punk e del rock tutto, un’enorme prova autoriale e a livello di produzione per Grant Hart e Bob Mould.
Nel 2011 a provarci sono i Fucked Up, gruppo canadese attivo da un decennio, che con David Comes To Life arrivano alla terza prova sulla lunga distanza, dopo una serie di decine di demo, singoli, split ed EP usciti in ogni formato, dal 7” alla (mai defunta) musicassetta, sempre all’insegna del Do It Yourself e del più integralista spirito punk. Già il precedente disco The Chemistry Of Common Life, uscito a fine 2008, tentava con successo di ampliare le forme e gli spazi dell’hardcore, inserendo elementi ritmici a volte kraut e a volte new wave, creando per sovrapposizione muri di chitarre veramente impressionanti e aumentando il minutaggio dei brani ben oltre i 2 minuti canonici.
Alla base delle canzoni e dei suoni di David Comes To Life ci sono gli stessi procedimenti, stavolta al servizio di una storia tra amore ed attivismo, divisa in quattro atti per un totale di ben 18 brani e quasi ottanta minuti di musica. Tanta carne al fuoco quindi, probabilmente troppa. Nonostante i tentativi di variare in qualche modo registro tra un brano e l’altro, alla fine ad emergere è infatti una certa monotonia di fondo, dovuta ad alcuni episodi in cui i canadesi osano meno e, in parte, all’uso monocorde della voce da parte del cantante Pink Eyes, un vero e proprio istrione folle dal vivo, ma che raramente si allontana dal classico ringhio rabbioso HC. Detto questo, vanno però sottolineati i meriti dei Fucked Up: innanzitutto un coraggio e una voglia di fare che oggi nel punk (e nella musica tutta) sono più che una rarità. Poi la capacità di tirare fuori in più di un’occasione spunti assolutamente interessanti: per esempio la voce femminile che ingentilisce The Other Shoe oppure la rivisitazione degli Hüsker Dü, quasi a chiudere il cerchio con i maestri del genere, che caratterizza Turn The Season; e ancora, l’assalto sonoro di Serve Me Right, che meriterebbe di diventare un classico, le stratificazioni sonore e concettuali di Truth I Know, l’andamento marziale di I Was There, la melodia quasi-Buzzcocks di The Recursive Girl. Un disco di non facile ascolto dunque, ma che ha il pregio di essere un’affermazione di vitalità e un necessario e sentito grido di rabbia. Cos’è il punk, se non questo?