Avete presente la perdita d’interesse nella visione di un film di cui qualcuno ci riveli il finale? Vi siete mai chiesti perché, quando sappiamo già come andrà a finire, spegniamo tutto e passiamo ad altro?
Rigirando la frittata: immaginate se, di tutti i film che avete visto finora, vi mancasse il finale. Se ogni volta aveste premuto stop a venti minuti dalla fine. I vostri film preferiti sarebbero ancora gli stessi? La risposta è che non potete saperlo. Non potete sapere se vi sarebbero piaciuti ugualmente anche senza averne visto l’epilogo perché, in realtà, mentre guardiamo lo schermo la nostra attenzione è costantemente concentrata sull’attesa dell’epilogo della storia. Infatti, quando un film è lento, spesso ci annoiamo e lo abbandoniamo perché “non c’è storia”. Non siamo abituati ad apprezzare qualcosa che non abbia un fine.
Questa recensione “non ha storia” e non ha un fine. O almeno, vorrei che non li avesse. Vorrei che la leggeste non per sapere se il disco dei Fuochi di Paglia è bello o meno, ma perché – come chi scrive – questo disco lo conoscete già da un po’ e siete curiosi di sapere cosa ci hanno trovato gli altri di bello, o di brutto, e cosa ci hanno trovato, in generale.
Poiché immagino che, a questo punto, quelli che guardano i film per il finale abbiano ormai, da svariate righe, abbandonato la lettura di questa recensione, rivolgendomi a chi di voi conosce questo album già da mesi vorrei chiedere: cosa ci avete trovato?
Quel che ci ho trovato io, nel disco dei Fuochi di Paglia, è una moltitudine di cose.
Innanzitutto, avendoli visti anche dal vivo, ci ho ritrovato quel che avevo visto e sentito: voce, chitarra, contrabbasso e percussioni e atmosfera ora sognante, ora demenziale, ora subliminale, ora semplicemente giocherellona. Ho pensato a colonne sonore (e ad ambientazioni) di film italiani come Basilicata coast to coast; ho pensato a Quentin Tarantino, a Jim Jarmusch, a Benigni, a Elio e le storie tese, a Capossela e a Tom Waits. Ho pensato a un’infinità di vesti e collocazioni per questi tre musicisti toscani sconosciuti ai più (ai troppi, perché suonano spesso in giro ma sempre entro i natali confini toscani).
Fuoco G, Fuoco C e Fuoco S – rispettivamente Gabriel Stohrer alla voce e alla chitarra, Cristiano Minelli al contrabbasso e Stefano Nassi alle percussioni – quando suonano sono talmente coinvolgenti che con i viaggi mentali che procurano, probabilmente Jim Jarmusch (che è uno che fa film straordinari anche senza finale) ci farebbe un nuovo Coffee & Cigarettes o un nuovo Tassisti di notte.
L’auto, peraltro, è la dimensione ideale per l’ascolto di Del carciofo e di altre storie.
Ormai certi paesaggi collinari toscani solcati e risolcati al volante li associo a brani come E sì che gracidan le rane e i suoi languidi coretti tra abissi malinconici e infiorescenze assolate, o alle ironiche esultanze di Ogni cantautore – probabilmente il miglior compendio della scena cantautorale italiana contemporanea.
Gabriel è un chitarrista e un autore estroso e ha il pregio di saper sfruttare al meglio una voce che si presta alla vena ironica dei suoi testi. Cristiano è teatrale, è la presenza scenica del gruppo e il suo apporto musicale è probabilmente l’elemento primo delle canzoni di questo disco. Infine, Stefano Nassi è uno dei percussionisti più spettacolari e divertenti in cui ci si possa imbattere nei locali della Toscana – e avrebbe pochi rivali anche altrove.
Rotoballe è la sesta e conclusiva traccia dell’album; esordio corposo di un terzetto che spero, mentre leggete, vi avrà già ubriacati dal vivo nei peggiori bar dell’empolese-valdarno.