L’ oltremanica fiammingo (che ha il merito di aver partorito vere e proprie pietre miliari dell’ indie/pop/rock contaminato di elettronica come Hooverphonic, Soulwax, dEUS) mise al mondo nel 1999 anche i Ghinzu, subito però penalizzati dal (ri)nascente mercato anglosassone del settore che, nel periodo in questione, presentava al mondo primedonne quali Strokes, Interpol, Franz Ferdinad e più avanti Bloc Party, Klaxons & C., lasciando ben poco al resto. La musica dei Ghinzu andava quindi inevitabilmente a concorrere con proposte più attrezzate da un punto di vista promozionale, più solide (e quindi per certi versi più scontate), più appetibili. I nostri, pur dotati di una buona verve creativa, anche se non in grado di reggere un disco l’ anno (questa è la loro terza uscita in un decennio) dovettero quindi accontentarsi di un mercato non certo infausto ma decisamente minore come quello in lingua francese (certo imponente rispetto a quello di casa nostra), ma comunque ingiusto per certi versi, visto che all’ epoca i ragazzi potevano effettivamente reclamare la stessa freschezza e originalità dei più famosi colleghi sopra citati. Infatti, dopo l’ auto-produzione (bellissima) del primo album Electronic Jacuzzi, targata 2001, poi ristampato nel 2005 sull’ onda del successivo Blow (2004) che diede alla band una discreta visibilità, soprattutto in patria e Francia, si sono poi dovuti attendere quattro anni (pare pure non facili) per questo Mirror Mirror (l’ album uscì in Belgio e Francia a marzo del 2009, mentre qui da noi e nel resto d’ Europa, UK compresa, è uscito solo a giugno 2010 senza un apparente perché). Ebbene Mirror Mirror, aldilà della delusione che ha provocato in chi scrive (che può essere solo personale), compie decisamente e oggettivamente un passo indietro sui precedenti anche nella forma. Una rinuncia alla strada personale nell’ indierock appannaggio di un’ eterogeneità di maniera che fa male al prodotto finale. Tralasciando i primi due pezzi del disco che sono pari pari Klaxons e Strokes fino all’ ovvietà (fanno spesso capolino nel resto nel resto del lavoro anche Muse, King of Leon, anche se come ispirazione, insomma la solita “cricca” di nomi più che noti), il disco è freddo, calcolato, seppure solido e “corretto” dal punto di vista fonico e compositivo. Poche le traccie da salvare vista la poca spontaneità generale, meglio soffermarsi su due: la title-track al numero 4 (che comunque rimane sul “passabile con brio”) e la la numero 7 This Light, piccola meraviglia che sorprende per quanto risalti, seppur con toni minori, arrangiamenti minimali e assenza di batteria per ¾ di canzone, nell’ insieme del disco. Ed è qui che emerge una tradizione, recente ma ben stratificata, che fa di Bruxelles un importante centro di sperimentazione pop, e che appunto anela ai capiscuola citati all’ inizio dell’ articolo. Indiscutibili nel fascino delle loro ballate. Era uno spunto che andava magari approfondito di più. Salviamo anche il felice tentativo in francese (ma solo per la versione continentale, in America e UK si traduce) della numero 9 (Je t’ attendrai in madrelingua, Joy, Success, Happiness in inglese), beat con stile e non troppo cervello che funziona, ma non basta. In definitiva troppi indizi fanno pensare al “commerciale” almeno come intenti, sacrificando un estro non comune. Arriverà la consacrazione grazie (anche) a questo?