Dietro la parete impenetrabile di distorsioni in feedback e l’apparente monoliticità si cela un lavoro dagli spunti più inattesi, che prendono l’avvio da un suono pencolante tra un indie noise grunge molto’90; lo shoegazing pop dei Jesus And Mary Chain filtrato, di conseguenza, attraverso l’osessività kraut nell’insistenza sui riff ripetuti in loop infiniti; istinti da wave albionica nell’impostazione vocale da Robert Smith etilico (I Want Someone Else o Killuhs, poi, ancora, in titrata Faust/Neu); il post di marca Fugazi (Switch) e certe bianchissime derive acide da rock nordico. Tanto che ad emergere, su tutto il lavoro, è una sensibilità melodico/isterica che rimanda direttamente ai Motropsycho altezza Demon Box o Timothy’s Monster: nelle linee armoniche di brani come Sleep o in ballate elettriche come Words e Too Soon, se non nelle sospensioni psichedeliche di Lexicon. Quello stesso approccio aperto, quella stessa volontà di articolare il proprio suono dall’interno di uno spazio pesante hardcore/hard rock che la stessa band norvegese stenta da molto tempo a recuperare.
Il disco suona, così, veloce e tirato; senza cali di tensione, nemmeno nelle parentesi più riflessive (che sono sempre agitate, però, da una carica nevrotica); mosso e caotico ma invariabilmente accattivante, seppure mai un brano riesca a sollevarsi dagli altri ed imporsi nella memoria.
Ne risulta un lavoro, comunque, fresco, onesto ed omogeneo; riprova di quanto un certo approccio (si potrebbe dire innodico) alla materia sonora, se ben strutturato, possa risultare coinvolgente, aldilà di ogni possibile moda o corrente. Per non dire dell’irresistibile aura di disillusa amarezza che lo investe e che non poteva trovare espressione più compiuta, in un titolo che è consapevole atto di disincantata, autolesionistica, prostrazione amorosa.