Circolava già da un po’ ma è solamente dal 3 ottobre che il “debutto” solista di Giovanni Ferrario sarà disponibile anche in Italia grazie ad Audioglobe; c’è una storia personale e trasversale dentro Headquarter Delirium da far tremare i polsi, non è semplicemente la militanza decennale in una scena i cui confini sono stati oltrepassati da pochi musicisti nel nostro paese, ma è un racconto personale e culturale che non sarebbe possibile senza le cicatrici del tempo. Le quattordici tracce di quest’album non sono contenibili in un solo, conciso, ascolto, e non stiamo parlando di eclettismo, ansia da accumulo, sprechi citazionisti, quelli fanno parte di un fast food globale che lasciamo all’arroganza di chi il tempo vorrebbe accellerarlo consumandosi o cercando di farci consumare dieci, vent’anni di discografia in due sessioni di download. Story of your life trafigge da subito con quest’amore profondo per il songwriting di Lou Reed che torna come una metastasi per tutto l’album come se fosse un dialogo privilegiato con una radice interiore affrontata attraverso l’erosione, un gesto d’affetto o un insulto iconoclasta. Non si tratta di un viaggio a ritroso o di una delle immagini della nostalgia, è il progressivo inabissarsi della forma canzone nel delirio della visione che trascina le quattordici tracce dell’album; già da New Car le tastiere di Giovanni e il muro di fiati quasi bowiano messo insieme da Enrico Gabrielli disegnano un tracciato libero, un Jazz senza standard intorno ad una struttura che affettivamente ricorda le atmosfere più belle degli Stranglers scomposte da una furia visionaria e improvvisativa. Anche quando si torna alla forma seduttiva di Elsewhere le diavolerie di Asso Stefana e il violino di Nicola Manzan spezzano il guscio e invece di abbellire con lo zucchero degli arrangiamenti generano aperture e lasciano sospese le intuizioni. La title track in un certo senso fa da spartiacque ed è un brano nodale affetto com’è da un’elettronica espressionista che non si preoccupa troppo del bello, del suono perfetto a tutti i costi e che fa pensare, almeno per forza d’intenti, al John Cale di Music for a New Society; un fantasma, quello di Cale che tra l’altro torna in molte tracce e mi riferisco in particolare alla sperimentazione sulla carcassa del blues che attraversa gli album meno conosciuti del musicista gallese, capolavori di sintesi blues minimale come Helen of Troy o Honi Soit; intendiamoci, questi sono solo strumenti della parola, appigli che servono a chi scrive per raccontare un universo complesso di suoni che in Headquarter Delirium supera queste e altre suggestioni. Si prendano brani come Honeymoon in Tribeka, Holy Freebased Blues e la sorprendente Sea Song, sono momenti di ricreazione decostruzionista, e se vi sembra una considerazione buttata li, provate a mettere insieme il deserto, brandelli di Street Hassle, il Jazz di Tom Verlaine, l’oscurità degli anni ’80 visti da quaggiù, la sperimentazione come forma della libertà e provate a riconoscerli dentro di voi. Se invece preferite una formula; questa è la migliore uscita “Italiana” del 2008.