Il Palco dove a momenti si esibiranno i Gogol Bordello, alla Festa Democratica di Firenze (quella che fino allo scorso anno si chiamava Festa dell’Unità), è sovrastato da due giganteschi cartelloni pubblicitari; su entrambi campeggia – enorme, rosso e tremendamente familiare – il marchio COOP…mi sorge spontanea un’osservazione: un particolare del genere, nel contesto visivo che si offre allo spettatore, costituisce un rassicurante trait d’union con quella componente nazionalpopolare cui il PD non sembra (non sembra?) voler rinunciare del tutto…di conseguenza, è decisamente funzionale nell’introdurre al pubblico l’improbabile accozzaglia di individui che si appresta a calcare la scena. Considerata la situazione, dire che i Gogol Bordello cascano a fagiolo è un eufemismo: in quanto emigranti/apolidi/randagi i nostri (1) incarnano perfettamente lo stereotipo romantico del perdente, (2) attingono a piene mani dalla tradizione popolare, (3) possiedono una naturale attitudine danzereccia e (4) tracannano vino rosso a fiumi…esattamente quello che occorre per eccitare la fantasia dei tanti giovani freakkettoni qui presenti.
Avvezzi da circa un paio di decenni alle incursioni artistiche dei vari Bregovic, Mano Negra o Modena City Ramblers (tanto per citarne alcuni) nel campo dei rispettivi patrimoni popolari, noi mediterranei siamo istintivamente portati ad apprezzare fenomeni musicali di questo tipo…La domanda da farsi è un’altra: come diavolo hanno fatto i nostri sedicenti gipsy-punk a diventare, in poco meno di quattro anni (dalla pubblicazione, nel 2005, di Gipsy Punks – Underdog World Strike), la next big thing statunitense? Specie in una città come New York, dove i rigidissimi dettami che separano l’In dall’Out avrebbero dovuto portare ad un aprioristico ostracismo nei confronti di questi profughi (e quindi altri per eccellenza) da tutto il mondo…eppure, ce l’hanno fatta, sponsorizzati nientemeno che dall’ambasciatrice del cool Louise Veronica Ciccone, loro grande fan. Ce l’hanno fatta, e hanno riportato la musica popolare (nella generica accezione di patchanka, ovvero miscuglio di tutto e niente) all’attenzione della stampa internazionale, trasformandola in un fenomeno di ampia portata e rinnovata vitalità.
Il ceppo culturale dei Gogol Bordello è prettamente tzigano/esteuropeo. Ucraino di origine romanì è il cantante e leader Eugene Hutz, fuggito dall’allora repubblica sovietica a seguito del disastro Chernobyl e approdato a New York nel 1993, dove ha cominciato a reclutare collaboratori per la propria avventura artistica. Magro e allampanato, due vistosi baffoni da cosacco e un fare da simpatica canaglia, incarna alla perfezione lo stereotipo di quello che alcuni definirebbe con disprezzo “zingaro”. Russi sono invece il rubicondo violinista Sergei Riabstev e l’armonista Yuri Lemeshev che, per evidenti ragioni anagrafiche, potrebbero benissimo essere lo zio e il padre dello stesso Hutz. I tre costituiscono l’ossatura musicale del gruppo, su cui si innestano i riff arabeggianti del chitarrista israeliano Oren Kaplan e il potente basso dub dell’etiope Thomas Gobena. Una menzione a parte meritano le ballerine Pamela Jintana Racine ed Elizabeth Sun: rispettivamente tailandese/americana e anglocinese, sembrano in verità figlie sfrontate dell’estrema provincia orientale di Santa Madre Russia, ed è così che ci piace immaginarle mentre si agitano nei loro succinti e provocanti costumini.
L’esibizione di un circo multietnico di tal fatta è esattamente come ci si aspetterebbe: un concentrato di energia e abrasività punk, melodie tzigane e sottofondo di cassa fissa che fa molto “…vrei sa pleci dar nu ma, nu ma iei, nu ma, nu ma iei, nu ma nu ma nu ma iei…” …naturalmente, manda in visibilio la folla. Qui alla Festa dell’Unità…pardon…Festa Democratica, cerchiamo soprattutto un’occasione per ballare, sbevazzare e – possibilmente – accoppiarci…beh, eccoci accontentati! L’istrionico Hutz è perfetto nel suo ruolo di performer dionisiaco mentre corre, salta, arringa il pubblico, impreca in numerose lingue, percuote un secchio su “Think Locally, Fuck Globally” (un manifesto programmatico mica da poco!), si aggrappa agli esili colli di Racine e Sun neanche fosse un pappa con le sue troie. C’è spazio perfino per un inatteso omaggio all’Adriano nazionale, di cui vengono accennati con fare strascicato alcuni versi da 24.000 baci e Storia d’Amore: d’altra parte, titoli come Super Taranta! o Harem in Tuscany avevano già palesato l’infatuazione di Hutz (che in Italia ha anche vissuto per un certo periodo) nei confronti della tradizione musicale nostrana.
In definitiva, una grande prova di vitalità. Niente che da queste parti non si fosse già visto, intendiamoci – tanto per tirare in ballo un paragone recente, mi è sembrato di notare alcune analogie con Tonino Carotone o l’ultimo Capossela. Eppure a questi newyorkesi d’adozione va riconosciuto il merito di aver saputo reinterpretare con grande freschezza i tradizionali modelli di riferimento e, soprattutto, di averlo fatto in un contesto (quello dell’indie-rock americano) almeno in apparenza piuttosto sfavorevole all’operazione. Bravi, non c’è che dire…certo però che quando la Festa Democratica era ancora la Festa dell’Unità i concerti erano gratis…