Basta, non bisogna più fidarsi delle reunion. È inutile, non ve ne è mai stata una che abbia funzionato, per quanto uno si sforzi di ricordare. Non fa eccezione quella dei Guided By Voices, eroi di culto di un certo lo-fi indie rock un po’ straccione tanto in voga nei Nineties. Bisogna dire subito, a scanso di equivoci, che Robert Pollard è stato una delle voci più ispirate di quella generazione: le sue canzoncine inconcluse e profondamente naif hanno fatto scuola, e c’è stato un momento – più o meno nel biennio 1996-1997, tra Under The Bushes, Under The Stars e Mag Earwhig! – in cui tutto il mondo indie ed alternative (come si diceva una volta) sembrava essere ai loro piedi. Poi i soliti problemi di dissoluzione e cattiva gestione delle carriere hanno provveduto a far tornare tutto alla normalità. Chiariamo anche che Let’s Go Eat The Factory non è affatto un brutto disco: tra le sue 22 canzoni, numero perfettamente in media con le passate produzioni GBV, ce ne sono diverse che riaggiornano il verbo Pollardiano in maniera abbastanza convincente: il piano struggente che chiude la melodia circolare di Spiderfighter, i numeri alla R.E.M. sparsi un po’ per tutto il disco (Hang Mr Kite, Chocolate Boy), le classiche andature sbilenche che non sai mai dove vogliano andare a parare (emblematica in questo senso è Imperial Racehorsing, forse il pezzo migliore dell’album). Il fatto è che, come già accaduto in alcuni lavori precedenti, a pregevoli idee ne susseguono altre che scivolano via senza colpo ferire, ed in questa ventina abbondante ce ne sono parecchi di episodi del genere (God Loves Us, How I Met My Mother, Waves, Go Rolling Home, solo per dare alcuni titoli), con il risultato che si arriva alla fine a corto di ossigeno e col pensiero che non è proprio il disco dei GBV da portare sulla classica isola deserta. Considerato l’esagerato numero di uscite discografiche che ogni mese invade il mercato, c’era proprio bisogno di un altro cd del gruppo di Dayton? A voi ascoltatori il compito di rispondere.