La storia dei Low è la storia di una grande band, che dalla sua nascita ad oggi è stata capace di cambiare pelle, di evolversi, di tornare sui propri passi e di fare scarti a volte improvvisi a volte meno, senza mai rinunciare ad alcune caratteristiche fondanti, in grado di far riconoscere il “suono Low” sempre e comunque, fosse esso immerso in sperimentazioni elettroniche o lasciato libero di librarsi in ballate acustiche. L’equilibrio instabile tra calma ed inquietudine è stato infatti declinato dai Low in vari modi in questi ultimi anni, puntando sempre a creare qualcosa che avesse in sé i germi della bellezza e di una semplicità fruibile senza essere per questo alla moda o figlia di calcoli.
Il loro nuovo disco, The Invisible Way, uscirà a marzo e si propone come un’ulteriore svolta per Alan Sparhawk e Mimi Parker, un avvicinamento al folk figlio di ciò che è accaduto a partire da The Great Destroyer fino ad oggi, un ritorno ai silenzi delle origini (loro e dell’America tutta) a partire da suoni più pop ed elettronici, una decina d’anni di musica in continuo movimento.
Cercheremo ora di seguire passo dopo passo questa evoluzione, partendo da quello che è il disco più pop dei Low, quel The Great Destroyer, uscito nel 2005, che sancisce l’inizio della loro collaborazione con la Sub Pop e che, per la prima volta nella storia della band di Duluth, si fa anche vedere in classifica, entrando nella top 100 britannica ed irlandese e sfiorando quella americana, sia per meriti dell’etichetta che propri del gruppo. Sono passati undici anni dall’esordio I Could Live In Hope e i Low col tempo sono diventati meno claustrofobici, riuscendo a regolare le loro inquietudini e a incanalarle in forme musicali più simili a quelle della canzone classicamente intesa. The Great Destroyer, prodotto da Dave Fridmann, è l’acme di questo processo, ed è l’ennesimo capolavoro nella carriera dei Low.
Il disco inizia con Monkey, che è anche il primo singolo, una calda litania con un tocco di elettronica che avvolge pian piano l’ascoltatore col suo basso fuzzato, suonato dal terzo membro storico, Zakk Sally, e il solito eccezionale duetto tra Alan e Mimi, intervallata da passaggi strumentali in crescendo memori di certo alternative anni ’90 post-Nirvana rispetto al quale i Low si ponevano a lato, ma che qui dimostrano di aver capito e rielaborato dandogli un tocco di classe in più. California è invece quanto di più simile al rock classico abbiano fatto i Low finora, una ballad su cui aleggia l’ombra di Neil Young, con Alan che ci si avvicina anche vocalmente, e del suo epos. Everybody’s Song è più spigolosa, con la chitarra di Sparhawk e la batteria di Mimi a guidare una marziale tempesta elettrica. Silver Rider fa scendere il ritmo, tornando alla calma disperata dei primi dischi, col silenzio e le pause che si fanno largo su un impianto musicale da folk ballad cantautorale. Just Stand Back sembrerebbe quasi allegra, con la sua melodia perfetta e coretti quasi-Beach Boys, se non fosse che è una murder ballad che promette gole tagliate, una trovata ironica che solo dei geni come i Low potrebbero rendere così credibile e godibile. On The Edge Of è un altro mirabile esempio della perfetta compenetrazione tra le voci di Alan e Mimi, a cui basta ripetere il titolo del brano all’infinito per creare il crescendo memorabile che contraddistingue la seconda parte della canzone. In Cue The Strings l’elettronica ha un peso rilevante nella tessitura ritmica e armonica di una ballata minimale, una Unchained Melody devastata e devastante dei tempi moderni ambientata in una fredda alba del Minnesota. Step torna invece dalle parti del rock classico, chitarra-basso-batteria e tre minuti di ottima semplicità, prima che When I Go Deaf torni a rarefare l’atmosfera lavorando per sottrazione (e ancora una volta sulle voci in maniera perfetta, serve dirlo?) per poi esplodere improvvisamente in un lampo post-rockeggiante e rumoroso. Broadway (So Many People) è il pezzo più lungo del disco, oltre sette minuti come molte canzoni degli esordi, una suite che accelera e frena, creando evoluzioni ipnotiche e attimi di sospensione, sulla linea dei Low più classici. Pissing rimane su queste atmosfere, con in più un piano in sottofondo a dare corpo e anima a una cavalcata che pare risentire del post-rock degli Explosions In The Sky. Per il finale del disco ci si affida invece a due brani brevi: Death Of A Salesman, folk ballad di due minuti e mezzo dominata dall’interpretazione autobiografica e sentitissima di Alan, e Walk Into The Sea, che con i suoi influssi new wave in cui annegano le voci ci spiega che il great destroyer del titolo è il tempo, con una visione religiosa e tormentata che traspare.
Il tempo è però tutt’altro che distruttivo per i Low, che anzi ne fanno buon uso nei due anni successivi, lavorando a Drums & Guns, un album che sorprende molti, se non tutti i fan. L’uso dell’elettronica, inserita sporadicamente in precedenza, diventa massiccio, creando un magma sonoro assai differente rispetto al passato, qualcosa che di primo acchito può sembrare spiazzante, ma che ad un ascolto più attento rivela tutta la sua forza ed il suo essere necessaria. Come si evince fin dal titolo, il disco infatti affronta temi politici, la guerra innanzitutto, e per farlo ha bisogno di comunicare quel senso di spersonalizzazione che spesso l’elettronica ha portato con sè, dai Kraftwerk alla techno fino ai Radiohead, che possono essere visti come dei numi tutelari del nuovo suono Low, forse anche per il tour fatto assieme nel 2003.
I Low, ancora con la produzione affidata a Fridmann, dimostrano di sapere ciò che fanno anche in questo caso, proponendo una collezione di canzoni che centrano il loro obiettivo quasi sempre, con forse un paio di momenti più deboli e fuori fuoco, cosa abbastanza comprensibile per chi si cimenta con modalità di lavoro pressoché inedite, per di più con un nuovo bassista, Matt Livingston.
Le sperimentazioni si concentrano soprattutto nella prima parte dell’album: i droni irrequieti sullo sfondo di Pretty People, la traccia di apertura; il beat minimale e rarefatto di Belarus e Breaker, brani dove però si riconoscono i Low grazie ancora una volta all’interazione vocale dei coniugi Sparhawk; il sottofondo ritmico decadente di Dragonfly, che si sposa alla perfezione con il tono litanico con cui viene cantato il testo; i break e il finale strumentale di Always Fade, il brano che più si avvicina ai Radiohead di Kid A e degli album successivi, anche per l’uso che viene fatto del basso; i bassi profondi di Hatchet, che cita i Beatles e gli Stones per chiedere pace con un certo grado di ironia.
Gli ultimi brani sono invece più legati a suoni analogici, anche se non al 100%: Take Your Time si fa trainare da cori di sottofondo tra l’angelico e l’inquietante e da un piano che ancora una volta ricorda alcune cose dei Radiohead, oltre che dal canto lancinante di Alan; Your Poison sono 75 secondi che partono con bellissime armonizzazioni vocali e diventano un quadretto pop; In Silence trasmette angoscia e sembra trasportarci direttamente in mezzo agli orrori della guerra in Medio Oriente, un attacco diretto a Bush e soci, che hanno instillato odio e violenza dentro di noi, costruito con suoni e motivi tipicamente Low, così come Murderer, che cresce pian piano con un basso quadrato e la chitarra perennemente in distorsione sullo sfondo; Violent Past sublima il discorso dei nuovi Low, tra disturbi elettronici, armonie vocali, una melodia senza tempo che riesce comunque a farsi strada e che chiude un altro ottimo disco nel modo migliore.
Passano ben quattro anni prima di C’mon, il successore di Drums & Guns. Nel frattempo Alan si è dato da fare con i Retribution Gospel Choir assieme a Steve Garrington, che diventa anche il nuovo bassista dei Low. Il suono di questa nuova band è più sanguigno e tipicamente rock rispetto a quanto fatto da Sparhawk con il suo gruppo principale in tutte le sue incarnazioni, in particolare rispetto a Drums & Guns. Forse questa esperienza “laterale” si fa sentire quando è ora di lavorare a C’mon, dove al centro del suono torna la chitarra e l’elettronica resta in secondo piano, così come la politica, che lascia spazio a testi introspettivi ed enigmatici, quelli che erano un marchio di fabbrica Low. Siamo quindi nuovamente dalle parti di The Great Destroyer, anche se con meno riferimenti al rock classico e una serie di episodi più minimali e scarnificati, con sempre maggior rilevanza data a Mimi e alla sua voce.
Come in quel caso la traccia di apertura è anche il singolo di lancio dell’album: Try To Sleep, un carillon dolce e insistente dalla forte componente onirica, ben esemplificata dal video di accompagnamento interpretato da John Stamos. Il resto del disco insiste spesso sulle stesse atmosfere: You See Everything e Especially me ad esempio crescono pian piano accostando la dolcezza della voce di Mimi a una certa decisione e quadratura ritmica; Done è un acquerello che affronta l’amore accostando la poesia del testo alla poesia della musica, con una slide piangente che compare qua e là a creare pathos; Nightingale è uno dei migliori duetti mai fatti da Alan e Mimi (e non serve aggiungere altro); Nothing But Heart è il pezzo lungo, otto minuti avvolgenti come i sogni; Something’s Turning Over è il finale semplice e familiare (con i figli ai cori), con radici nel folk più classico, tanto che non sfigurerebbe nel canzoniere di Woody Guthrie riproposto da Billy Bragg e Wilco. Proprio i Wilco fanno la prima comparsa nell’album e nella storia dei Low, con Nels Cline che presta la sua chitarra in Witches, dando il suo tocco magico senza essere invadente, ma anzi immergendosi in una canzone già perfetta.
Tocca poi a Jeff Tweedy guadagnarsi un posto da protagonista nell’epopea Low, producendo il nuovo album, The Invisible Way, in uscita a marzo. Il processo di sottrazione iniziato con C’Mon qui continua, portando ad un disco chiaramente influenzato dal folk e dai grandi songwriter, con parti acustiche rilevanti come non mai, così come quelle di pianoforte, e canzoni strutturate abbastanza classicamente, nelle quali Mimi guadagna ancora più spazio, ergendosi a protagonista assoluta in molti brani, più che in ogni altra occasione.
Anche questa volta il primo brano diffuso è anche il primo della tracklist, Plastic Cup, che già fa capire il mood dell’album tutto, con il suo lavoro di chitarra leggera, accordi di piano sparsi e il cantato pacificato e sognante dei coniugi Sparhawk. Amethyst è forse il pezzo più legato al passato, con la sua ossatura minimale ma in grado di trasmettere molto, i suoi silenzi, i suoi attimi di sospensione resi ancor più magici dall’ingresso del pianoforte nella seconda parte. So Blue esalta ancor più il ruolo del piano, che diventa il traino dell’intera canzone assieme a un drumming essenziale e alla voce angelica e forte di Mimi, che ci trasporta davvero nel blu. In Holy Ghost è ancora lei a guidare le danze, cimentandosi questa volta con atmosfere più bluesy e sofferte, non sfigurando assolutamente ma anzi risultando credibilissima ed emozionante. Waiting è invece un grande duetto, su atmosfere tese in cui l’elettrica di Alan dialoga con il piano nell’attesa di una svolta, di un superamento del dolore. Clarence White è un blues scarnificato di ottimo livello, un grande pezzo rock in nuce, che sembra risentire della vicinanza dei Wilco o dell’ascolto della Band, col suo ritmo quadrato basato su cassa e handclapping. Four Score è il brano più d’atmosfera, quasi jazzato e da luci soffuse, con Mimi per una volta nel ruolo della chanteuse per due minuti e mezzo sussurrati e di gran classe. Poi arriva Just Make It Stop, col suo appeal pop trascinante, un vero capolavoro in grado di farsi ascoltare mille volte, per come cresce con decisione e dolcezza a partire da un semplice giro di chitarra da rock FM. Mother è cantautorato chitarra-piano-voce e poco altro, il pezzo solitario (e spesso autobiografico?) che Alan inserisce più o meno in ogni disco e che anche in questo caso colpisce con forza. On My Own è il momento più teso dell’album, parte come una tranquilla ninnananna per poi lasciar spazio a una chitarra elettrica arrabbiata al limite del noise che disegna scampoli di melodia, sempre affiancata dal piano, che per una volta si fa maltrattare e non accarezzare. Per il finale arriva To Our Knees, che calma gli animi e ci culla davvero, grazie ancora a Mimi.
Un altro grande disco quindi, un altro capitolo di una storia ricca di sorprese e, cosa ancor più importante, di musica capace di trascendere i generi e di cercare sempre la Bellezza.
Ora non ci resta che attendere il prossimo album, con la certezza che mai i Low potranno deluderci.
Tracklist di The Invisible Way:
Plastic Cup | Amethyst | So Blue | Holy Ghost | Waiting | Clarence White | Four Score | Just Make It Stop | Mother | On My Own | To Our Knees [/box]