A tarda notte, mentre con sguardo assente passavo in rassegna il ben poco stimolante palinsesto televisivo, mi sono imbattuto nel video di A Sangue Freddo – il singolo tratto dall’ultimo lavoro omonimo del Teatro degli Orrori – e sono stato istantaneamente risucchiato all’interno dello schermo. Credo sia stata la crudezza delle immagini girate dal regista Jacopo Rondinelli il primo elemento a catturare la mia attenzione. Subito dopo sono stato colpito dritto in faccia dalle parole di Pierpaolo Capovilla; parole sputate fuori con rabbia in quel tono a metà fra cantato e parlato che caratterizza l’interpretazione del frontman.
La musica di Favero, Mirai e Valente era semplicemente perfetta: diretta, energica, melodica e trascinante. Ognuno di questi fattori contribuiva a trasmettermi sensazioni epiche e brutali al tempo stesso. A Sangue Freddo celebra la figura dell’artista e attivista nigeriano Ken Saro-Wiwa, condannato a morte dal proprio governo nel 1995 perché si opponeva apertamente allo sfruttamento selvaggio cui le multinazionali del petrolio, e in particolare la Shell, stavano sottoponendo i giacimenti presenti sul delta del Niger.
Il risultato è toccante, considerato anche che alcuni passaggi del testo sono liberamente tratti da un componimento intitolato “La vera Prigione”, opera di Wiwa stesso. Nella poetica del Teatro degli Orrori l’artista si erge a paradigma dell’individuo schiacciato da un sistema intrinsecamente corrotto e apparentemente invincibile. Benché egli sia costretto a subire la morte nel silenzio della comunità internazionale, la sua lotta e il suo sacrificio assumono una valenza universale: “È nell’indifferenza che un uomo, un uomo vero, muore davvero”. Le tematiche del singolo sono le stesse che ispirano gran parte dei testi dell’album. A Sangue Freddo, così come era stato il precedente Dell’Impero Delle Tenebre, è una sorta di concept sul malessere contemporaneo.
Le vicende personali si intrecciano continuamente con la disamina politica, tracciando un quadro della nostra epoca che nulla ha di consolatorio e da cui tutti usciamo irrimediabilmente sconfitti. Pierpaolo Capovilla, ancora una volta, si dimostra un mattatore assoluto: il piglio teatrale e il tono fortemente nasale della voce lo pongono ad un crocevia dove si incontrano le figure di Nick Cave, Carmelo Bene e David Yow. Proprio il leader dei Jesus Lizard, una volta, disse con ironia che il ruolo di un cantante non è molto diverso da quello di un amplificatore. Ma un’affermazione del genere non avrebbe alcun senso in un contesto come questo.
La cura che ha preceduto la stesura dei testi si avverte eccome, e la sostanza sta proprio nel sapiente uso che viene fatto della lingua italiana. All’epoca in cui militava nei Onedimensional Man Capovilla cantava in inglese, sostenendo che l’importante fosse quel che si diceva, non il modo in cui lo si diceva. Poi il nostro ha scoperto la gratificazione che comporta venire compresi dal proprio pubblico, tanto che non sembra più intenzionato a tornare sui suoi passi. Per fortuna, aggiungo io. Al momento la poetica e l’interpretazione del frontman del Teatro – un cantato/recitativo in cui confluiscono passioni letterarie e amore per la drammaturgia – trovano ben pochi termini di paragone all’interno del panorama italiano. Il grande merito di Pierpaolo Capovilla risiede nella capacità di risultare credibile sia nei momenti più solenni sia quando si mostra ironico e beffardo; non è da tutti saper bilanciare una irrimediabile propensione verso il lato oscuro con lo sberleffo di un ghigno (satanico) o di una bestemmia ben assestata. Se dunque la verve dei testi è rimasta invariata rispetto al precedente lavoro, le novità più consistenti riguardano stavolta il trattamento delle musiche. L’eredità della Touch & Go costituisce ancora il canovaccio su cui impostare gran parte dei pezzi ed echi di Rapeman e Jesus Lizard si avvertono ovunque. Questo secondo album è però più meditato rispetto al predecessore.
L’attenzione rivolta alle melodie è indubbiamente maggiore, consentendo a squarci di cantautorato di farsi strada all’interno della formula noise-rock della band. Numerose sono inoltre le collaborazioni con musicisti esterni al gruppo: la presenza di pianoforte, archi, fiati e sintetizzatore accanto a chitarra, basso e batteria rivoluziona alcuni brani con esiti sorprendenti. Un esempio evidente del nuovo corso è fornito dalla felpata opener Io Ti Aspetto, tutta giocata sulle timbriche del piano e sulla voce di Capovilla: una musica struggente per un testo che analizza la dolce malinconia dell’attesa.
L’adrenalinica Due ci riporta su binari più consueti e lascia esplodere la chitarra di Gionata Mirai in tutta la sua potenza. Seguono due assoluti capolavori, la già citata title-track – uno dei pezzi più potenti e accessibili mai composti dal gruppo – e l’eccezionale Mai Dire Mai. Quest’ultima ricorda decisamente le atmosfere del primo disco: la chitarra slide in apertura sembra quasi citare Nub degli onnipresenti Jesus Lizard ed il testo maligno è semplicemente geniale. Direzioni Diverse, estremamente melodica ed arricchita di innesti elettronici, ha un piglio quasi wave e rappresenta efficacemente il cammino verso l’evoluzione intrapreso dal gruppo. Il Terzo Mondo e Padre Nostro, entrambe fragorose e sulfuree, si lanciano in invettive socio-politiche dai toni esasperati. La splendida Majakowskij rappresenta un’altro dei punti di forza dell’album: la musica si fa in un certo senso da parte, seguendo i tempi ed adattandosi alle dinamiche della recitazione di Capovilla. Il frontman rilegge qui la poesia “All’amato se stesso dedica queste righe l’autore”, scritta dall’artista russo Vladimir Majakowskij, secondo l’interpretazione teatrale che ne diede Carmelo Bene; ha dunque occasione di rendere omaggio contemporaneamente a due dei suoi più grandi maestri. Alt!, tempi irregolari e batteria schiacciasassi, ha la compattezza di un muro di mattoni. È Colpa Mia e La Vita è Breve evidenziano la ricerca di soluzioni più orientate verso la melodia ma, a parere di chi scrive, sono gli unici episodi che non convincono del tutto.
In chiusura, l’ennesimo capolavoro: in quasi dodici oppressivi minuti Die Zeit ci conduce alla fine del nostro oscuro viaggio. Ogni singolo musicista fornisce una performance eccezionale. Giulio Favero sorregge il pezzo con un solido giro di basso, mentre Mirai arricchisce la pasta sonora con fraseggi suggestivi, rimanendo tuttavia sempre defilato sullo sfondo. Splendida l’interazione fra le due diversissime batterie, quella quadrata ed essenziale di Francesco Valente e l’altra, nervosa e scattante, dell’ospite Jacopo Battaglia (Zu). Capovilla canta con voce sepolcrale l’amore sconfitto, abbandonandoci ad un abisso di tristezza con il lapidario refrain “tu non mi ami più, ed io nemmeno” che ci rimbomba nelle orecchie.
Doloroso? Probabilmente sì. Necessario? Senza Dubbio.