Che cosa è derivativo e cosa non lo è? Oppure, cosa è originale e cosa non lo è? Viviamo in un epoca di zeppa di citazioni del passato, stracolma di filoni musicali che vengono ripercorsi senza spirito critico, mode che tornano e che d’un tratto scompaiono. Come considerare allora un gruppo evidentemente derivativo (del brit-pop) come gli Inland Sea? Io mi sono arreso ad utilizzare esclusivamente il gusto personale: mi piacciono il sound e i pezzi e quindi è un bel disco, anche se ovviamente non sarà una pietra miliare o nemmeno un disco “importante”. Il quartetto ha iniziato la propria gavetta come cover band de le Scimmie (storico locale milanese sui navigli), per poi incidere due album (Inland Sea del 2008 e Things Change del 2010). Fino ad arrivare ad oggi, con la pubblicazione di questo lavoro di matrice prettamente anglosassone, un brit-rock accattivante ricco di richiami: dagli Starsailor (Soul Weather) ai Travis (Two) passando per U2 (He’s your son) Radiohead (Blind) Coldplay (Weak) e Artick Monkeys (The Gift). Si passa da pezzi più tirati a momenti più intimistici senza mai perdere il gusto per la melodia e la capacità di produrre arrangiamenti accattivanti, 9 pezzi che scorrono via con la facilità di uno spritz alle 19.00 di sera e magari lasciano anche un segno un poco più incisivo di una serata finita fra i fumi dell’alcool.