Nuovo album, nuova formazione, nuova etichetta e nuovo nome per quelli che fino ad adesso conoscevamo come Ed Wood. L’aggiunta di uno strato in più di pelle più che una vera e propria muta.
Intercity, questo il nome scelto dal gruppo che aggiunge due componenti a quelli già uniti nel precedente progetto: Anna Viganò (chitarra e voce) e Fausto Zanardelli (tastiere).
“Grand Piano” il titolo del disco nonché di quello che è decisamente il pezzo più forte di tutti i complessivi tredici; un album che, forse non a caso, ricorda un moto ondulatorio, come se tutto fosse basato sul forte contrasto che emerge un po’ ovunque tra gli opposti concetti di piano e forte, e tutte le infinite sfumature che si legano inevitabilmente a questo binomio. Un caso di sdoppiamento di personalità in musica, se così mi è consentito definirlo: una scaletta che prevede per l’appunto una dinamica alternanza di un brano più soft ogni uno più ritmato. Una successione regolare di note veloci e ruvide, accostate e alternate molto bene con altre lente, liscie ma sempre piacevoli. I testi, insolitamente in italiano, rispecchiano questa dualità nel modo in cui sono costruiti, paradossalmente senza costruzione. Ci sono tante idee, buone intenzioni e belle immagini e impressioni, solo che a volte sembra ci sia una forte indecisione su come combinarle insieme, disconnessioni e disunioni che lasciano un po’ perplessi. Comunque non c’è che dire, “Grand Piano” è un lavoro che dà l’idea di essere stato plasmato da mani delicate e da teste piene di buone intenzioni; che poi lasci qualcosa su cui discutere e da rivedere credo che sia prerogativa di ogni nuova prima “creazione”.
Non ci sono punti morti e anche quando sembra esserci un qualche elemento più debole non ci viene lasciato troppo tempo per identificarlo, scompare troppo velocemente, inutile quindi il tentantivo di ricercarlo. La verità è che sono molti i pezzi che facilmente si ricordano e che restano in testa: brani come “Keith e Annette”, “Sei stata compagnia”, la già citata “Grand Piano”, “Odio Anversa”, le stesse canzoni che fanno la forza di tutto il disco. Sono cariche, dense, piene di ogni cosa, un miscuglio piacevole di rock, pop, qualche sfumatura di elettronica, il tutto condito da una buona interpretazione vocale.
Una generale dimensione musicale ben stratificata e ricca, senza troppe indecisioni che alla fine finiscono per destabilizzare anche il più paziente e interessato degli ascoltatori. I restanti brani, vedi “Caterpillar music”, “Manhattan”, “Hippie” e “Cerbiatti”, non è che non si facciano notare o manchino di forza, è solo che risultano molto diversi dagli altri coi quali devono essere necessariamente messi a confronto e che hanno il grande pregio di essere, in tutto e per tutto, convincenti e ben fatti. La verità è che con un inizio come quello che abbiamo qui e i seguenti punti alti viene voglia di muoversi e una volta iniziato vorremmo poterlo fare ininterrottamente per tutta la durata del disco. Pensandoci bene però, può anche essere che proprio questo miscuglio di elementi aiuti a mettere tutti d’accordo, facendo crescere i consensi anche fuori dalla schiera di coloro che già hanno precedentemente applaudito gli Ed Wood. Chissà, ad ogni modo aspettiamo l’uscita di questo lavoro per il 10 Aprile e vediamo che succede. Sono pronta a scommettere che chi deciderà di salire su questo treno, farà di certo un buon viaggio,e coloro che ne resteranno delusi saranno sicuramente la minoranza.