Out of the window into the house è celebrazione di una tradizione moderna, di uno dei tanti possibili folk contemporanei, ed il suo autore, Sergio Carlini aka Jowjo, il depositario di un classicismo moderno. Perchè: quello che si intese come l’adilà, il post, di qualcosa che non era trapassato ancora, nel volgere di un tempo brevissimo, per quanto il nostro evo vuole che sia, da avanguardia (pop) che era, si è fatto storia. Da lì Sergio non si è mai mosso ed è da quel luogo che pervicacemente suona la sua musica, sia da solo che con i Three Second Kiss. Gli accordi della sua chitarra travalicano il decennio trascorso e raccolgono quanto di buono fu fatto in quel passaggio di secolo, ridonandolo in forma d’amore. Perché questo è Jowjo: un atto d’amore, come sembrano suggerire i tre evocativi titoli italiani: Ancora nessun messaggio (così attuale e così arcaico), Il seme sui sassi non cresce e I miei ragazzi, che suonano ancor prima che la musica abbia inizio. Sono i falò di Pavese accesi nel deserto di Paris, Texas. E di cinema ce n’è tanto nelle corde di Out of the window into the house. Quello vero di Ry Cooder, appunto, e Neil Young (Dead Man). Quello a cui porre tributo, come fece Jim O’Rourke con Bad Timing al suo, e nostro, amato Nicolas Roeg de Il lenzuolo viola. E quello immaginato dei Gastr del Sol/David Grubbs e Directions in music. Le immagini scorrono tra le note solitarie delle sei corde producendo un’attesa che monta dall’incipit magico di Jeff on the roof; attraverso la titletrack annunciata dall’archetto di Giovanni Fiderio (che è presente in quasi tutti i brani); passando per Blueshrinking ed esplodendo, finalmente, nella succitata Ancora nessun messaggio, dove, a prodursi in una matematica spigolosa, è la band straordinaria composta da Stefano Pilìa, Paolo Iocca e Julien Fernandez: una burrasca di June of ’44 e Shipping News. Altrove il minimalismo alla Penguin Cafè Orchestra muta in frippertronics e, di conseguenza, risale l’eco di uno Ian Williams dei primordi (Crispy Guaranteed). Poi il suono si rasserena nuovamente, procedendo come un respiro, donando al lavoro, nella sua interezza, un ritmo estatico, sospeso ed avvolgente quanto distante e rivolto all’intelletto. Un disco (sì, un disco!) che ha le qualità che furono dei grandi già menzionati, a cui Bob Weston, in qualità di produttore, dà “quella” forma che abbiamo imparato bene a conoscere, pur rischiando sempre di confonderla tra i mille sterili epigoni che continuano a trascinarsi stancamente fino ad oggi.