Resto convinto che la miglior incarnazione de Le Luci Della Centrale Elettrica fosse quella iniziale, quella del demo e dei concerti da 20 minuti, in cui tutto bruciava velocemente e tu restavi nella fiamma senza aver troppo tempo di pensare. Due schiaffi e via, senza menate, parole sputate fuori senza un particolare senso (il cut up non l’ha certo inventato lui), ma che in quel turbine istantaneo riuscivano comunque a colpire e a dirti qualcosa, una cosa più vicina al punk che al cantautorato classico come attitudine, come produzione e soprattutto come legame con la realtà. Dove la grande scuola cantautorale italiana infatti analizzava la società e le nostre anime con dovizia di particolari, Vasco Brondi procedeva con pennellate naif, accompagnate da suoni altrettanto naif, con l’incoscienza giovanile che dal ’77 in poi è tornata ciclicamente a farsi sentire. E lo faceva in un modo unico e nuovo, al di là delle influenze più o meno chiare presenti, prendendosi sul serio ma fino a un certo punto.
In questi tre anni e mezzo è successo praticamente di tutto a Vasco: il primo disco (Canzoni da spiaggia deturpata) e il tour con Giorgio Canali, le copertine, l’interesse di sempre più persone, il libro basato sul suo blog, la ricerca di cambiamenti nei suoni e nei concerti con archi e reading, il silenzio prima di questo nuovo album, Per ora la chiameremo felicità.
Cosa rimane di quel cantante stonato che vidi per la prima volta in un Arci di Carate Brianza (chiuso pochi mesi dopo) davanti ad un pubblico di sì e no 10 persone, in questo sua nuova uscita, sempre per La Tempesta? Per fortuna qualcosa; all’interno della produzione sempre più curata (questa volta a suonare con lui ci sono anche Rodrigo D’Erasmo, Enrico Gabrielli e Stefano Pilia, oltre a qualche intervento del solito Canali) rimangono tracce forti e chiare del suo modo di fare, che se viene ingabbiato tende a morire e a sembrare monotono, quando in realtà non lo è (o almeno, non più di ogni altro musicista con uno stile definito). Forse Vasco si prende più sul serio che in passato, dopo questi anni al centro dell’attenzione, a tratti i testi danno una minor sensazione di spontaneità, e nel suo caso non è una cosa positiva, ma a volte esce lo stesso spirito del 2007, in maniera meno urlata e sguaiata, ma ugualmente capace di colpire. Ci sono così pezzi come Cara Catastrofe, Una Guerra Fredda, L’amore al tempo dei licenziamenti dei metalmeccanici (questa più acustica del solito) o Le petroliere (forse un po’ troppo lunga) in cui emergono la stessa rabbia, la stesso spaesamento e lo stesso romanticismo disperato capaci di far male e di farsi ricordare. Altrove invece c’è meno forza e l’ascolto si fa meno emozionante, per esempio su Fuochi Artificiali, Anidride Carbonica (con citazioni CSI) o Per respingerti in mare, che sembrano eccessivamente costruite e per questo meno vere.
In definitiva, un disco inferiore per ispirazione rispetto al precedente, ma in grado di dire ancora qualcosa a chi riesce ad immergersi nella poetica di Vasco, che può piacere o no, ma non può lasciare indifferenti. Un tassello di una storia musicale di cui non si può prevedere il seguito: forse i richiami chitarristici ai Massimo Volume di I nostri corpi celesti sono un indizio, forse no; forse le atmosfere claustrofobiche di molti brani lo sono, forse no. Due certezze però emergono: la prima è che non tornerà mai indietro alle radici “scordate” del suo suono, la seconda che non abbandonerà, se non a lungo termine, il suo modo di scrivere. Di conseguenza potrà perdere fan, ma guadagnarne di nuovi e, al tempo stesso, avere sempre più detrattori. Vedremo fino a che punto.
Mal che vada tra 30 anni lo ripescheremo e lo ri-eleggeremo eroe alternativo, come capitato a molte altre meteore più o meno lucenti nell’ambito alternativo italiano.