Quello spazio rimasto vuoto per quattro lunghi anni. Quattro anni dall’ultimo Drums and Guns. Non che quel disco mi avesse, in qualche modo, dato speranza, ma c’era qualcosa di talmente grottesco dietro quegli incisi elettronici così posticci e caricaturali e quelle liriche così lontane dal loro clichè, che mi spingeva ancora a crederci, credere che non si fosse esaurita quella miniera d’oro. Non era infatti possibile attestarsi a quella satira che il trio di Duluth aveva compiuto alle sue stesse spalle. Proprio loro che ne avrebbero ben donde di esigere un premio nobel per aver creato alcune tra le più belle atmosfere che la storia della musica ricordi, affidandosi sempre e solo agli strumenti tradizionali e senza mai farcire di ridondanze inutili o altrettanto inutili diavolerie sintetiche il loro suono così maturo e personale. Proprio loro che negli aridi anni della fuffa decadente e grungettona, mistificatrice proprio di quelle amenità che un arpeggio ben suonato può regalare, venivano fuori in maniera immateriale, scarni e minimali, quasi a voler dire: “è così che siamo, null’altro di ciò che il vostro cuore vi sta ora indicando!” E così adesso devo ringraziare me stesso per aver fatto in modo che questo C’mon trovi il posto che meriti nella mia discografia dei Low.
Devo, infatti, a dischi come Things We Lost In Fire e Trust la mia devozione incondizionata verso la potenza della melodia. Devo loro anche l’aver cullato dolcemente le mie irrequietezze giovanili donandogli significato ma soprattutto, gli devo la ragion per la quale gioisco ancora delle piccole cose che mi fanno star bene. C’mon è manufatto di immanente splendore che già nel titolo sembra contenere l’esplicito invito a lasciarsi coinvolgere, senza riserve. L’ennesimo saggio struggente e visionario di Alan Sparhawk e Mimi Parker, coniugi nella vita e nell’arte e considerati, giustappunto, fulgidi esempi di questo genere così livido e mesto sebbene succedaneo di una morbida coperta in pieno inverno. E così l’iniziale Try to sleep prova a declinare il verbo Wilco à la maniera delle tortore che tubano, mentre la successiva You see everything m’incanta tanto quanto farebbe del dream pop con la nobiltà melodica degli Abba. Witches e Nigthingale scorrono paesaggi in slow motion, come fossero scatti di un album ingiallito e non v’è nota che non si lasci abbracciare come qualcosa a cui si vuol davvero bene. Segue il folk amaro e dimesso di Done mentre una lapsteel ne accarezza le fragili nudità, così come briciole di Drake si raccolgono in Something’s turning over. Tocca infine a 20$ e Nothing but heart riproporre, rispettivamente, la metafisica gospeliana di Trust ed i deliri mantrici saturati di The Great Destroyer. In Majesty/Magic, un uomo assiste alla creazione dell’universo mentre Especially me (immensa) suggella definitivamente il capitolo “come scrivere un capolavoro”. Quanto Low è questo disco!
Raccolgo le forze che mi rimangono ed adagio il mio testone su un morbido cuscino, così, tanto per continuare a sognare, ancora un po’, ancora solo. E vado oltre, molto oltre.