Dopo una serie di album autoprodotti, e del precedente Mai nulla di troppo (su ViVeriVive, netlabel da lui ideata) Andrea Vascellari, in arte Lullabier, pubblica il primo disco su etichetta Oltrelanebbiailmare: Verità rivestite d’ombra. Si tratta fondamentalmente di un “cammino” artistico, quello di Lullabier, in cui nessuna tappa è stata bruciata, anzi, il suo ultimo lavoro è il risultato delle esperienze – siano esse vincenti o meno – che lo hanno portato a conquistare un piccolo spazio nel panorama musicale indipendente. Ascoltando il disco del giovane trevigiano, possiamo confermare quanto dice lui stesso sul suo sito, quasi disapprovandosi: Lullabier “parla troppo”, ma di questo dovrebbe compiacersi poiché le sue parole non sono mai vuote, piuttosto si tratta di ragionamenti musicali – sonori e lirici – di un certo spessore. Prendete come esempio la prima traccia, Calliope, magari mentre vi perdete nell’immagine che sovrasta la copertina dell’album, quella foto arida di colori, che viaggia sul treno dell’ambiguità del segno linguistico: troverete la stessa impenetrabilità nei suoi testi, dei microcosmi quasi ermetici, comprensibili soltanto in funzione del tutto, del disco nella sua interezza. D’altronde, uno che si permette metafore poco convenzionali, concedendosi pure qualche licenza poetica, non ha che da esser applaudito: “Sopra una cyclette pedalo e non raggiungo un obbiettivo: infiniti punti medi mi separan dall’arrivo”, perché la vita stessa è come una cyclette, si scende quando si ha realmente messo la parola fine. I temi del disco sono abbastanza variegati, c’è però un comune denominatore, un concetto ricorrente legato alla paura di soffocare, alla mancanza di ossigeno; si ascoltino Crepuscolo, ma soprattutto Grisù, quel gas incolore e inodore che “spezza le piume con un soffio”. Partendo dall’autovalutazione che Lullabier fa della sua musica, definendola minimalista, terapeutica e di facile ascolto, a noi sembra di trovarci in un territorio abbastanza neutro della musica indie. Un po’ come accade con un altro cantautore di “litanie ascetiche cullate su rintocchi ipnotici” (altra auto-definizione con la quale esaltiamo il suo parlar troppo), tale Maximilian Hecker, anche il lavoro di Lullabier non si incastra nelle vecchie scaffalature dei generi, seppur minimalista, e per questo, a detta di alcuni, facilmente catalogabile. La sua musica è contrastante nel nascere, Chance è si una ballata, ma chi mai avrebbe il coraggio di catalogare quel “in fondo non è così semplice attutire il colpo che è conseguente al salto, e rimanere almeno un po’ felice”, nello stesso ripiano di tronfi eccedenti di significato come sono i Marlene Kuntz o gli Afterhours? Insomma, musica, poesia e filosofia, non per tutti ma sicuramente per coloro i quali sono ancora in tempo per quel fascinoso treno del quale parlavamo pocanzi. Visto che sa farlo, lasciamo che sia Lullabier a concludere in bellezza, con le stesse parole della sperimentale Schiavi: “Spesso l’artista che tesse una trama sembra uomo a metà, se la sua arte è viva”.