sabato, Novembre 2, 2024

Mark Lanegan & Duke Garwood – Black Pudding

Alla lunga lista di collaborazioni che hanno costellato la carriera di Mark Lanegan si aggiunge ora quella con Duke Garwood, chitarrista inglese che aprì i concerti del tour acustico di Mark nel 2010, unendosi anche a lui e a Dave Rosser sul palco per i bis.
Anche in questa occasione, come praticamente in ogni altra fin dai tempi degli Screaming Trees, il punto di partenza dell’album è il blues, e non potrebbe essere altrimenti date le caratteristiche della voce di Lanegan. Questa volta è però un blues scarnificato, sperimentale e dalla forte componente cerebrale, ben diverso dalle influenze cupe ed elettroniche (anche se qualche beat è presente anche qui) dell’ultimo Blues Funeral, così come dagli accenti country e melodici dei lavori con Isobel Campbell, per restare agli ultimi anni.
Un disco non facile da giudicare questo, proprio perché si discosta dalla classica produzione laneganiana, dove praticamente in ogni caso era la sua voce a guidare il tutto, col suo carico di sofferenza, dolore, whisky per fantasmi e sigarette, come la storia del blues insegna fin dagli albori. Stavolta invece viene lasciata meno centralità alla voce di Mark, se non in qualche occasione (dove tra l’altro lascia il segno profondamente, ma non c’erano dubbi su questo, come ad esempio in Mescalito, nel gospel Shade Of The Sun o in Death Ride, la più Lanegan del lotto), per dare invece maggior spazio alla sperimentazione sulla forma canzone, guidata dalle circonvoluzioni della chitarra di Garwood e dai minimali interventi di percussioni e beat elettronici.
Il disco necessita quindi di più ascolti per farsi apprezzare pienamente, per riuscire a carpirne l’animo più profondo, nascosto anche nei brani in cui Lanegan è meno centrale, a partire dai due strumentali posti in apertura e chiusura, Black Pudding e Manchester Special, che sono due dimostrazioni dell’enorme bravura di Garwood alla chitarra, per arrivare a brani come Pentecostal o Sphinx, in cui la voce di Mark si fa sì sentire, ma restando sullo stesso piano dei preziosismi di Duke, che ha la rara capacità di capire quando può indugiare in abbellimenti e quando invece deve puntare al sodo. Alla fine, con un po’ di pazienza, si arriva a capire la bellezza di tutto l’album e anche l’intelligenza di Lanegan nel fare a volte un passo indietro per amore dell’ottima musica di Garwood.
Quindi non il solito disco di Mark Lanegan, ma il solito ottimo disco di Mark Lanegan, due cose diverse ma comunque appaganti. E non fidatevi delle solite recensioni in cui si dice che Mark potrebbe cantare anche l’elenco telefonico, è molto meglio in questa veste.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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