Nel 1993 il giornalista Michael Azerrad diede alle stampe un libro intitolato Come As You Are, The Story of Nirvana. Fu, comprensibilmente, un best seller. La prima biografia ufficiale di Kurt Cobain e soci è ancora oggi un testo fondamentale, considerato l’oggetto preso in esame. Potremmo discutere all’infinito su quale posizione i Nirvana meritino di occupare nel pantheon del rock, ma al di là delle preferenze personali, rimane un dato oggettivo che la storia della cosiddetta musica alternativa si divida in un pre e in un post Nevermind. I fenomeni di Aberdeen non furono la prima formazione indie a firmare un contratto con una major: in precedenza lo avevano fatto Hüsker Dü, Replacements e Sonic Youth. Tuttavia nessun altro gruppo proveniente dall’underground – prima o dopo di loro – avrebbe avuto lo stesso impatto mediatico e commerciale sul grande pubblico, così come sull’industria musicale. L’interesse suscitato dall’album spinse le major alla spasmodica ricerca di altre galline dalle uova d’oro, e le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: basta guardare una puntata di TRL per capire come in classifica convivano artisti dall’immagine esplicitamente pop con altri che si rifanno ad un’estetica pseudo-indie, seppur animati dalla stessa etica spudoratamente commerciale. Non mi sentirei di escludere che i primi sintomi di tale tendenza, già avvertibili nel 1994, abbiano aggravato i sensi di colpa del povero Cobain e abbiano in parte pesato sulla sua decisione di farsi saltare la testa. Comunque sia, il successo di Nevermind all’epoca fece gridare al miracolo e indubbiamente rappresenta un evento di portata storica. Otto anni dopo il suo primo libro, Azerrad si interroga sulle ragioni di tale successo e le espone appassionatamente in American Indie 1981-1991, dieci anni di rock underground, pubblicato in patria nel 2001 e fino a questo momento criminalmente ignorato dall’editoria italiana. Errore a cui i tipi dell’Arcana hanno finalmente posto rimedio. L’opinione di Azerrad è che, fondamentalmente, i Nirvana si siano trovati al posto giusto nel momento giusto: dalla lettura appare chiaro che la ragione dietro alla straordinaria fortuna della band risiede anche in una paziente opera di sensibilizzazione, portata avanti da un manipolo di artisti visionari nell’arco del decennio precedente. La narrazione ripercorre, attraverso testimonianze dirette, le biografie di tredici gruppi cruciali per lo sviluppo del rock alternativo negli anni ottanta: dai già citati Hüsker Dü, Replacements e Sonic Youth, agli altrettanto noti Fugazi e Dinosaur JR, fino a formazioni più oscure ma non meno importanti come Big Black, Butthole Surfers e Beat Happening. Come sottolinea Peter Prescott (batterista dei Mission of Burma) il conservatorismo, il materialismo, la grettezza e il rampantismo veicolati dalla leadership di Reagan crearono i presupposti per la nascita di una fiorente scena underground. Il comune sentimento di insoddisfazione, la frustrazione diffusa, avrebbero spinto molti a cercare di fare qualcosa per operare un cambiamento. Mentre effimeri idoli pop mantenevano il monopolio delle posizioni alte nelle classifiche, alcune pensatori lungimiranti, ispirati dalla logica DIY del punk, si misero in testa di operare una rivoluzione dal basso. I cospiratori non erano solo musicisti ma anche scrittori di fanzine, proprietari di piccole etichette a gestione familiare, promoter locali e via dicendo. La misura indipendente dell’intera operazione è data dal fatto che, molto spesso, ruoli diversi si sovrapponevano: Greg Ginn (Black Flag) e Ian McKay (Minor Threat, Fugazi) furono rispettivamente i fondatori di SST e Dischord, due fra le etichette indipendenti più significative del periodo. Tuttavia, l’attività di musicista indipendente era una scommessa con se stessi che non sempre aveva esito positivo. Una band straordinariamente influente sulle generazioni successive come i Mission of Burma non riuscì mai ad imporsi al pubblico negli anni in cui era in attività. Sul versante opposto i Black Flag, incredibilmente famosi lungo l’arco dell’intera carriera, vissero le proprie esistenze sulla soglia della povertà, e raccolsero tanti consensi quanto odio. La carriera musicale nell’underground americano degli anni ottanta era insomma una strada in salita. Ma proprio le prospettive pressoché nulle di successo spinsero gli artisti a concentrarsi sulla qualità di quanto stavano facendo, lasciando da parte gli orpelli e le pose da rock star. Il titolo originale dell’opera, Our Band Could Be Your Life (frase tratta da una canzone dei Minutemen), sottolinea molto meglio della traduzione italiana il legame che univa le band al pubblico. La rivoluzione fu preparata da persone comuni. La fiducia nelle proprie capacità, la perseveranza e la solidarietà crearono le premesse perché ciò che in origine aveva riguardato poche migliaia di individui, divenisse altrettanto importante per milioni. Un atteggiamento che, come la storia ci insegna, avrebbe avuto effetti sorprendenti nel lungo periodo, portando quello che era in origine un piccolo gruppo punk dei dintorni di Seattle a scalzare Michael Jackson dalla posizione numero uno della classifica di Billboard. Un’attitudine che, in tempi di magra per il settore discografico, può ancora insegnarci molto e farci continuare a sperare. Uno dei migliori libri sul rock degli ultimi dieci anni, punto.