Ci sono eventi – istantanee rappresentative dello zeitgeist di un’epoca – che possono essere pienamente compresi ed apprezzati solo in prospettiva. Se Live in Berlin 1988 dei Mudhoney fosse stato pubblicato a seguito del concerto cui fa riferimento adesso sarebbe un obsoleto VHS, lasciato a prender polvere su uno scaffale accanto ad analoghi memorabilia come Louder than Live, The Year that Punk Broke e Live! Tonight! Souldout! Il caso ha voluto invece che Horst Weidenmüller, patrono della tedesca !K7, riesumasse il documento dal proprio archivio video soltanto di recente. Proprio ora che il grunge – al pari di almeno un paio dei suoi più illustri rappresentanti – è un fenomeno morto e sepolto. E che, come tale, può essere adeguatamente storicizzato. A distanza di quasi cinque lustri saltano dunque all’occhio (e all’orecchio) le caratteristiche specifiche di un movimento che fino ai tardi anni ’90 permeava ancora in larga misura la scena alternativa, a livello tanto sonoro quanto estetico. Alla luce delle registrazioni sembra innegabile che la paternità di un certo sound e la diffusione di determinati elementi stilistici siano da attribuirsi proprio all’ensemble capitanato da Mark Arm. Registrato nell’ottobre del 1988, il documentario testimonia come i Mudhoney degli esordi si trovassero in una condizione paradossale: quel suono sporco e approssimativo – memore di Stooges, Black Sabbath, Motörhead, Blue Cheer ed MC5 – sembra decisamente fuori tempo massimo se confrontato con l’hair e il thrash metal che spopolavano all’epoca su Headbangers Ball. Eppure, in capo ad un paio d’anni, avrebbe fatto scuola fino a monopolizzare per lungo tempo il palinsesto alternativo. E il lascito del gruppo a livello iconografico non è certo da meno. Basta osservare la mise sfoggiata da Arm sul palco dell‘Indipendent Days Festival per comprendere come Kurt Cobain (e a ruota circa un miliardo di adolescenti) abbia mutuato in toto quel non-look divenuto look: lunghi capelli biondo platino, converse all star, jeans strappati, magliette sformate e collanine hippie. Completano il quadro le Fender Mustang azzurrine (altri manufatti apparentemente anacronistici in un’era di Ibanez e B.C. Rich dalle forme aguzze) e un’attitudine da loser sfoggiata con orgoglio, canonizzata dalla scritta che campeggia sulla maglietta del frontman (un lungimirante prodotto di marketing a firma Sub Pop). Alle pose machiste del coevo heavy metal – a cui peraltro non sfuggiranno nemmeno i concittadini Soundgarden ed Alice in Chains – i nostri oppongono un atteggiamento irriverente e cazzone, esplicitato dalle piroette in cui Arm e Steve Turner si esibiscono durante il break di In’n’Out of Grace, dalle incitazioni caricaturali che il frontman rivolge alla folla, dalla messa in ridicolo dei più abusati cliché rock (nel corso di una pantomima che coinvolge anche l’impresario Johnatan Poneman). Ma oltre a testimoniare ciò che i Mudhoney hanno significato per il movimento grunge tutto, il video è un’ottima occasione per rimarcare quei tratti di originalità che, fin dagli esordi, hanno distinto i quattro dagli altri capelloni di Seattle. L’uso compulsivo dello wha negli assoli di Turner getta un ponte fra Ron Asheton e Lee Ranaldo, a riprova del fatto che il rock’n’roll della band sia sempre stato una questione di punk più che di hard. Ulteriore conferma di ciò la si trova nello stile del batterista Dan Peters, poco propenso alla pesantezza metal e se mai incline a ritmiche forsennate, ossessive e tribali di chiara scuola post-punk. Specie nella loro veste live brani come No One Has o Here Comes Sickness devono ben più di qualcosa a Joy Division e Bauhaus. Live in Berlin 1988 è infine una testimonianza della straordinaria capacità imprenditoriale della (allora) neonata Sub Pop. Come specifica Mark Arm nell’intervista rilasciata a Stevie Chick (contenuto speciale accluso al DVD), quando i Mudhoney calcarono il palco dell’Indipendent Days Festival non avevano alle spalle che 10 mesi di attività, un singolo e una manciata di show locali. Se Bruce Pavitt e Johnatan Poneman si presero la briga di portarli fino a Berlino fu perchè speravano che il pubblico e la stampa europea avrebbero contribuito a creare un hype che si sarebbe ripercosso con effetti positivi sul territorio americano. Idea azzardata, ma che si inseriva perfettamente nella strategia di marketing della Sub Pop: consci di non poter competere con le major a livello di numeri, Pavitt e Poneman puntavano ad incuriosire e fidelizzare gli ascoltatori (ancora oggi il motto dell’etichetta è “Turning Community into Customers”). Tale strategia avrebbe trovato la sua piena realizzazione nell’invito rivolto al giornalista inglese Everett True che, recatosi a Seattle, avrebbe recensito la scena in un lungo articolo su Melody Maker. Il quale, a sua volta, avrebbe spianato la strada all’ascesa del movimento grunge. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.