Nell’anno di grazia 1991 il punk sfondò e i Nirvana fecero il botto, ma il sottoscritto era distratto. Attraverso la placenta protettiva in cui trascorreva l’infanzia, i selvaggi richiami della teenage angst gli erano giunti come suoni sordi ed ovattati. Solo una manciata di anni più tardi il summenzionato gruppo sarebbe diventato per lui – come per milioni di coetanei – una religione che sconfinava nel fanatismo. Gli ingredienti perché si consolidasse la vera fede, del resto, c’erano già tutti: un profeta morto per lavare i peccati del mondo e un testo sacro a cui attingere per la predicazione del verbo. Testo che, nella fattispecie, è rappresentato dall’album di cui ci apprestiamo a parlare in questa sede. Ogni seguace che si rispetti, se interrogato al riguardo, si affannerà a dare la sua preferenza ad In Utero (in alternativa qualche originale potrebbe sbilanciarsi su Bleach), ma nessuno si azzarderebbe a negare il fatto che Nevermind rimane la pietra d’angolo su cui il mito dei Nirvana e di Kurt Cobain si è costruito negli anni. Michael Azerrad, biografo ufficiale della band ed autore del seminale American Indie 1981-1991, ha suggerito che il successo di Nevermind rivela un tipico caso di “nel posto giusto al momento giusto”. Osservazione non peregrina, ma che presa a sé non basta a spiegare la valenza iconica dell’album. È certamente vero che l’opera seconda dei Nirvana ha raccolto i frutti di un decennio di networking undeground; tuttavia se questo è stato possibile lo dobbiamo a due non trascurabili fattori. In primis alla qualità del songwriting di Cobain, che all’epoca si stava orientando verso soluzioni più melodiche, guadagnando al contempo in brillantezza ed efficacia. A ripensarci oggi, verrebbe quasi da dire che lo stratosferico appeal della proposta risieda in una qualità assestata sui valori medi. Cobain non è certo stato l’autore più dotato della sua generazione: la struttura compositiva strofa quieta/ritornello distorto alla quale il gruppo di Aberdeen deve la propria notorietà non evidenzia sortite geniali, e pare evidente che chiunque avrebbe potuto pensarci. In effetti alcune misconosciute formazioni indie ci avevano pensato (Mission of Burma, Hüsker Dü e Pixies i nomi dei maggiori indiziati fino a quel momento), ma solo Cobain sarebbe riuscito a canonizzare efficacemente la formula, acquisendone di diritto la patria potestà e rendendola obsoleta per quanti fossero venuti dopo di lui. Qualità assestata sui valori medi, si diceva. Vero, ma – attenzione – stiamo parlando di valori medi eccezionalmente alti. Ed è questo che, a conti fatti, costituisce un fattore determinate nella riuscita delle canzoni. Come spiegare altrimenti il perfetto bilanciamento fra cock rock e sensibilità melodica proprio di un brano come In Bloom (per chi scrive l’apice dell’intero album), che soltanto nell’assolo di chitarra riassume 10 anni di atonalità underground statunitense (ascoltandolo non vengono forse in mente le armolodie di Greg Ginn?) irrimediabilmente fusa ad una compiaciuta tamarraggine da guitar hero? E senza dubbio Lithium è una composizione priva di difetti perché, nonostante il ritornello si limiti a ripetere “yeah-yeah-yeah-yeah” (roba che neanche Ligabue), quando parte lo cantiamo ancora tutti in coro e non ci vergognamo. (continua alla pagina successiva…)