venerdì, Novembre 8, 2024

No Joy – Ghost Blonde (Mexican Summer, 2011)

È il 2011, ma potrebbe essere benissimo il 1991, l’anno dei grandi sconvolgimenti per la storia della musica rock e pop in generale, che per alcuni volle dire Nevermind, per altri Loveless. Curioso, innanzi tutto, che questi due dischi, che hanno fatto epoca e hanno affascinato trasversalmente orde di musicisti ed ascoltatori, rappresentassero, pur nella loro quasi antitetica difformità di esiti sonori, già nel titolo, un desiderio di nichilismo pressoché assoluto. Se, da un lato, il grunge nel nichilismo ci si tuffava di testa, vedendo nella sopraffazione dall’universo e dagli eventi l’unica soluzione possibile, dall’altro, lo shoegaze cercava il niente oltre il terreno, imponendosi come codice di comunicazione pressoché unico la rarefazione sonora e canora. Non stupisce, allora, che un gruppo che si chiama No Joy intervenga a gamba tesa esattamente vent’anni dopo, in omaggio a quella regola non scritta che recita che i cicli nella musica sono ventennali, ripercorrendo le orme delle band per le quali ergere muri, sonoramente parlando, era una missione postulata prima ancora che ricerca stilistica funzionale alla scrittura. Jasmine White-Glutz e Laura Lloyd nascono dunque come duo a Montreal, anche se la prima decide ben presto di trasferirsi in California. Piazzano due turnisti al basso e alla batteria e, dopo un paio di registrazioni al volo, si materializza la Mexican Summer (Marissa Nadler, fra gli altri, in scuderia, oltre al purtroppo solamente omonimo John Carpenter) a scritturarle. Se non è revival, in effetti, poco ci manca. Gli stilemi e i cliché adottati da Kevin Shields e soci ci sono più o meno tutti, ma i risultati, almeno in parte, sorprendono. Innanzi tutto, a colpire è la profonda differenza che marca fra le varie canzoni, proprio nel modo in cui sono registrate. Di brano in brano, il missaggio effettuato da Sune Rose Wagner (e si sente, le armonie vocali, c’è da scommetterci, sono opera sua) dei Raveonettes regala un ruolo da protagonista a turno ad ogni singolo strumento, lasciando tutto il resto sullo sfondo e cercando comunque, volutamente, di mantenersi su una resa sonora a bassa fedeltà. Le chitarre dominano nella spumeggiante apertura di Mediumship e Heedless (curioso come assomiglino davvero a certe produzioni Creation dei primi anni ’90, ma d’altra parte Alan McGee produsse sia Oasis che My Bloody Valentine), la batteria ariosa cadenza in primo piano Maggie Says I Love You e Pacific Pride, il basso pulsa in You Girls Smoke Cigarettes?. Se tale scelta stilistica costituisce, comunque, una particolarità nel suo genere, l’impronta personale delle No Joy tende a fermarsi un po’ a metà strada. L’evocazione del sound caratteristico funziona (anche se il suono oscillante à la Kevin Shields rimane inimitabile) e il mood generale è quello giusto, ma i brani, in più di un’occasione, non brillano di luce propria, alcuni dei quali allo stesso tempo troppo seriosi per avvicinarsi ad una gioiosità pop e troppo superficiali per raggiungere la disperazione esistenziale dei predecessori. E, come se non bastasse, una volta che si spinge un po’ l’acceleratore, riemergono scopiazzature sonicyouthiane (Hawaii e il ritornello chitarristico di Still), dalle quali, per i gruppi “nuovi” del genere, sembra impossibile svincolarsi. In tutto ciò, altri episodi rimangono comunque apprezzabili, su tutti l’ipnotica Indigo Child. Un’operazione nel suo complesso riuscita a metà, che però non manca, a tratti, di fascino per orecchie che ad atmosfere dilatate, melodie impercettibili e a bordate di fuzz e feedback hanno dedicato ore di ascolto in pieno raccoglimento estatico.

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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