domenica, Dicembre 22, 2024

Paolo Benvegnù – Hermann: la recensione

La carriera autoriale di Paolo Benvegnù si arricchisce di una nuova opera, che riconferma l’artista ormai fiorentino d’adozione come uno tra i migliori scrittori di canzoni nell’ambito indipendente ( e non solo) italiano. Una continuità qualitativa che non viene scalfita dai cambiamenti che Hermann ha portato con sé, sia nelle modalità di lavoro su testi e suono, sia a livello dei temi affrontati.
In questo disco infatti, più che nei precedenti, Paolo ha lavorato assieme alla sua band, costituita da musicisti di altissimo livello, nella stesura, negli arrangiamenti e nella produzione dei brani, con risultati ottimi, come prevedibile vista la qualità dei coinvolti, all’insegna dell’equilibrio tra influenze di ogni tipo, dal rock al jazz, dal post-punk al cantautorato.
Questo passaggio al lavoro in team è stato accompagnato da quella che può essere vista come una scommessa (vinta, naturalmente): mentre in precedenza Benvegnù partiva da racconti intimi e personali, che rendeva universali grazie alle sue enormi capacità di scrittura, in questa occasione è stato utilizzato il procedimento inverso. Alla base del disco c’è infatti una storia, la storia del mondo e dell’uomo, resa però in maniera tale da poter diventare quella di ognuno di noi, dei nostri amori, delle nostre vite.
Le canzoni che compongono l’opera, perché di opera si può parlare, sono tredici, ognuna delle quali è un capitolo dell’evoluzione (o involuzione) dell’uomo. Si parte con Il pianeta perfetto, che ci fa riflettere sulle differenze tra tempo perso e tempo vissuto su arrangiamenti minimali ed eleganti, con in particolare un violoncello struggente; si passa poi a Moses, che ha un piglio più new wave e riesce a travolgere l’ascoltatore immergendolo in un flusso sonoro e di parole di pura bellezza, e a Love Is Talking, uno dei brani più universali del disco, tra Dio, religione e amore. Poi arrivano altre perle di rara lucentezza, come Achab In New York, che riprende il mito di Moby Dick aprendosi in un fantastico ritornello elettrico dopo un paio di minuti più claustrofobici, oppure Sartre Monstre che miscela battiti Radiohead con una classicità senza tempo, o ancora Johnnie And Jane, capace di far commuovere parlando di amore e morte nel 2011, quando tutto sembra falso ed inutile.
A chiudere arriva poi una doppietta clamorosa: Il mare è bellissimo è una perfetta sintesi tra rock e ascendenze cantautorali, avvolgente e diretto, un viaggio senza destinazione che prefigura scenari apocalittici, mentre L’invasore, con la voce di Andrea Franchi, si sorregge sulla sola chitarra acustica e qualche intervento di archi, trovando nella semplicità la sua forza.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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