Le labbra è un cd di cui disfarsi, velocemente, oggetto da consumare con rabbia e dolcezza imprime sull’anima immagini dolenti come su un supporto fotosensibile; sono fantasmi che si riverberano da parola a suono e che dai versi di Luciana Manco distillano un nutrimento rosso di sangue.
Le labbra è un’opera violentemente politica, se politico fosse ancora il modo di raccontare, di vedere e montare, di sporcarsi con i limiti della forma resistendoci dentro, contro la sborra del gesto che esibisce un grido di cui non ci si fa carico. La politica di un autore che racconta l’ambiguità del punto di vista e lo fa attraverso una cultura musicale e narrativa che esplode in mille pezzi lanciati verso un flusso. Le labbra, a memoria, è una delle rare raccolte di canzoni che non si chiude e che sfuma, come un long take degli anni 70, evapora nel momento emozionale più forte dove l’esoterismo laico di Luciana e Paolo macina parole che escono fuori campo.
Ed è chiaro come a partire da La Schiena, Benvegnù reinventi con ferocia la sua stessa scrittura, una danza ossessiva estratta dal violino di Alessandro Fiori e specchiata nel frammento quasi klezmer dei fiati, intarsio ritmico lanciato verso un deflagrante crescendo che replica l’ansimare del trascinamento nel lamento infinito e quasi frippiano della chitarra, quasi un’intro per Amore santo e Blasfemo, disparità del tempo, storta e bellissima nella sua forma sinfonica e spettrale risucchiata all’indietro fino ad esplodere nel sole dei fiati.
L’attacco de La peste da dove viene con quelle distanze evocate da un mellotron sottopelle e un violino strappato a simon house? Una forma che in circostanze diverse sarebbe emersa come veste wave (la lotta tra basso e violino) di cui Benvegnù si sbarazza con forza risucchiando questi elementi nel suo percorso personale, tra concisione e deriva freeform, davvero in Italia non era possibile ascoltare da anni una libertà creativa cosi estrema condotta con la capacità di tenere saldi gli argini dell’intreccio; il continuum con Il Nemico introduce una delle tracce più drammatiche, anche nel suo assimilarsi ad un residuo cinematico, quasi il melodramma del miglior John Barry con quel riverbero tra piano e un incedere marziale che in fondo è una suggestione funerea del tutto personale; “spegni la luce contagia il tramonto“.
In questa lettura imperfetta del desiderio, La distanza è un brano centrale, una confessione amorevole e amara fondata sulla sottrazione, dove il verseggiare di Benvegnù si avvita al tessuto sonoro con un’immediatezza tagliente; quasi una frizione contrastante con la successiva Interno Notte, ballad a spirale, senza fine ne principio, davvero una traduzione infedele della scrittura sghemba di Wyatt, una tregua apparente allo scivolare inesorabile che ricade su L’ultimo Assalto, forma mutante del nuovo Paolo Benvegnù, un brano straordinario e commovente per mobilità melodica e sintesi minimale che un tempo si poteva ancora osar chiamare sound.
Jeremy ha la forza crudele e geometrica di David Grubbs o Chris Brokaw quando penetrano la carcassa del pop, con una sezione archi o quel che ne rimane a tracciare un filo invisibile in discesa, una delle tracce più belle di tutto l’album che si disossa lentamente verso una timbrica essenziale, quasi un dobro, un folk senza tempo, koto music per tempi moderni; sintesi di un modello matematico, come recita il brano successivo, sconcertante e visionario mostra una via a molti sperimentatori d’accatto, attenti al core delle loro alchimie piuttosto che all’impasto di timbri, parole e forza evocativa. Cinque secondi porta alle estreme conseguenze il Jazz apocrifo de La peste per poi tornare verso la forma con quell'”alzati per sopravvivere“, che introduce una chiusura senza fine, che potremmo ripetere, ad libitum.