Esistono opere che trascendono i propri meriti specifici, attirando una serie di elogi anche e soprattutto in funzione di quel che rappresentano all’interno del contesto in cui vedono la luce. Album come Funhouse, Ramones o Nevermind the Bollocks, tanto per circoscrivere l’argomento, sono splendidi esempi di rock duro ma – in quanto reazioni più o meno confuse ad una situazione contingente percepita come “scomoda” – assurgono al rango di veri e propri manifesti. Con i tempi che corrono, una nuova uscita targata Pissed Jeans rischia di assumere la medesima valenza iconica. Trovandomi a fare i conti con una scena alternativa (a chi o a che cosa nemmeno lo si capisce più) che elegge a propri eroi improponibili pusillanimi, non posso che salutare con gioia la perseveranza di chi si ostina da anni a proporre musica brutta, sporca, cattiva, demente e fuori moda. Il quartetto di Allentown non ha mai fatto mistero delle proprie (nefaste) influenze, ed anche in occasione dell’ultima fatica Honeys espone i santini in bella vista. Il peggio del peggio dell’underground statunitense anni ’80 e ’90 viene riesumato dalla tomba, neanche ci trovassimo all’interno di un film di George A. Romero. Si va dai riff contorti à la Duane Dension di You are Different (in person) e Male Gaze, alla narcolessia Flipper di Cafeteria Food, fino allo sludge Melviniano di Teenage Adult. C’è spazio anche per un episodio “sperimentale” come Chain Worker, in cui Matt Korvette giunge al punto di far sembrare David Yow uno con la voce impostata. Ma è nei brani più tirati e fracassoni che i nostri danno il loro meglio: la devastante traccia di apertura Bathroom Laughter, Romanticize Me, Vain in Costume o Health Plan – tutte adrenalina e sudore – sembrano uscite direttamente dall’EP Nervous Breakdown. Al di là dei termini di paragone tirati in ballo, tuttavia, sarebbe un errore guardare ai Pissed Jeans come a meri epigoni. Lo stesso frontman ammette candidamente di rifarsi al Nick Cave periodo Birthday Party, ma sostiene (non a torto) di darne un’imitazione talmente indecente da trasformarsi in qualcosa di originale. Tale affermazione dà la misura della cifra stilistica del gruppo meglio di quanto potrebbe fare qualunque cartella stampa. La spina dorsale dei Pissed Jeans è un suono di basso paragonabile soltanto a quello di una scorreggia; Korvette latra come un cane di grossa taglia; gli argomenti trattati dai quattro, il più delle volte, sono talmente terra-terra che metterebbero in imbarazzo persino Steve Albini. Ma nonostante un così alto grado di approssimazione, o forse proprio in virtù di esso, la musica dei nostri è in grado di trasmettere sensazioni realmente viscerali. Una merce sempre più rara da quando i piani alti delle classifiche alternative sono in balia della mosciezza. I Pissed Jeans viscerali lo sono, almeno quanto una macchia di vomito sul pavimento o una testata contro il muro. E il fatto che siano altrettanto disgustosi e stupidi, per quanto mi riguarda, costituisce un valore aggiunto. Probabilmente la loro stessa esistenza suona come una bestemmia per i sofisticati art-rocker cresciuti a pane e Radiohead che considerano Alt-J o Dirty Projectors i nuovi doni di Dio® alla musica. Io sarò eretico e pure un po’ fascista, ma l’unica rivelazione giuntami dopo aver ascoltato i summenzionati gruppi concerne la mia inadeguatezza nel rapportarmi ad una scena che prende tanto sul serio certe frociate. E non me ne vogliano i crociati della political correctness se uso termini coloriti, che qui le preferenze sessuali di chicchessia non hanno alcuna rilevanza. Del resto sono quasi certo che ricchioni cazzuti come Alessandro Magno, Yukio Mishima, Bob Mould o Gaahl avrebbero cacato in testa a smidollati di tal fatta. Dal canto mio, con questa uscita sto a posto tutto l’anno.