I Planet Brain sono una band italiana, originaria del Cadore, formata da Marcello Batelli alla chitarra ( da qualche mese membro anche dei Non voglio che Clara), Nicola Zangrando al basso e Claudio Larese Casanova alla batteria. Il loro secondo lavoro, prodotto dall’etichetta inglese Function Records, si avvale della preziosa collaborazione negli arrangiamenti di Fabio de Min (Non voglio che Clara) e Giulio Ragno Favero (Teatro degli Orrori e One Dimensional Man).
La stampa anglosassone li definisce melodic-modern-day shoegazers, ma in realtà poco importa che si tratti di alternative prog rock o semplicemente di indie rock, l’importante è il risultato. E Forecast EP è davvero un ottimo prodotto. Il primo album, compromises & Carnivals, era un disco viscerale, in cui si condensavano fragilità e rabbia, ma aveva al suo interno troppi alti e bassi. Una difficoltà superata, poiché Forecast EP è un lavoro compatto e omogeneo, senza per questo perdere in emozionalità. La chitarra è protagonista, detta linee melodiche tirate e potenti non tralasciando nessun piccolo particolare. Il suono risulta pulito e definito, maniacale nei dettagli quanto esplosivo nel complesso.
La sezione ritmica colpisce per l’originalità delle trame costruite, molto accattivanti e fantasiose. La somma fra chitarra, basso e batteria produce temi musicali che sorprendono pur mantenendo un unico filo conduttore. Difficilmente ascolterete l’album e vi lascerà indifferenti. La prima traccia ricorda molto nell’intro i God is an Astronaut e in generale le sonorità post rock dell’ultimo decennio. La voce entra nel brano dopo un paio di minuti accompagnata da una bocca di suono potente e coinvolgente, che si attorciglia attorno alle parole “I’m Connectd, I’m connected”. In Yesterday e Believe/novembre/slowly emerge la parte emozionale, scandita da riff di chitarra aggressivi e cambi di ritmo che la batteria e il basso sottolineano con accattivante creatività. La triade finale si caratterizza per un ritorno al post rock contaminato da riff psichedelici cuciti assieme da un songwriting di alto livello, a riprova della grande maturità compositiva raggiunta dal gruppo. La voce di Batelli merita un capitolo a parte. Non perché abbia dei difetti congeniti, anzi, i falsetti e le parti acute sono sempre sotto controllo. Il cantato e lo strumentale si prendono per mano per tutti e 27 minuti dell’album. Esagerando, sembra in alcuni frangenti che la voce accarezzi le parti strumentali, accompagnandole fra picchi, risalite e cambi di ritmo. Ma il modo di cantare assomiglia troppo a quello di Matthew Bellamy dei Muse. Anche la musica in alcuni tratti ricorda gli esordi del gruppo gallese, ma la voce purtroppo risulta quasi identica. E’ un peccato, perché è difficile per chi ascolta non considerare questo elemento.
Detto ciò, ci troviamo di fronte a un disco dal ritmo veloce, incalzante e che fugge da qualsiasi tipo di banalità. La tecnica espressa dal gruppo non è mai fine a sé stessa, ma come detto da Batelli stesso in un’intervista “ non è mai esaltata, è solo funzionale e rimane in ogni caso alle dipendenze della componente emotiva “.
Insomma un gran bel lavoro scrupoloso e attento ai dettagli senza per questo risultare piatto e inespressivo. Gli arrangiamenti sono fatti con dovizia e intelligenza, i synth sono al posto giusto senza eccedere. Solo la sezione vocale lascia, come detto sopra, un po’ l’amaro in bocca. Per il resto però, bravi tutti.